Ma cosa centra il ciclismo con le Olimpiadi?
di Gian Paolo Ormezzano
Sto scrivendo al di qua dei giorni olimpici di Atlanta, chi eventualmente mi sta leggendo è al di là di essi, ma la questione non cambia, ed anzi deve avere la forza di svincolarsi dall’attualità, dall’emotività, dalla eventuale soddisfazione o insoddisfazione di giornata, per cui è bellissimo un evento se ci gratifica, bruttissimo se ci punisce, al di là del suo autentico valore assoluto. La questione è quella della validità del ciclismo alle Olimpiadi.
In quello che ahimè è un mio pesante record, cioè venti edizioni dei Giochi, fra estivi ed invernali, coperte da giornalista, ho avuto modo, alcune volte persino preso sul serio da serissime persone, di esaminare l’impatto dell’ingresso nel programma olimpico di un nuovo sport, o di una nuova specialità all’interno di uno sport già conosciuto. Non pensavo di fare in tempo ad assistere all’ingresso del ciclismo professionistico. Ma d’altronde non pensavo neppure di dover assistere all’avvento nei Giochi del tennis, che si è fra l’altro ripresentato dopo una assenza di 64 anni e quindi, per quasi tutti, ex novo, mentre il ciclismo si è appoggiato ad altro ciclismo preesistente, quello definito dilettantistico.
Ho scomodato il tennis perché è stato per me la via ad una sorta di rivelazione/ragionamento che ora appiccico al ciclismo, nel tentativo di rispondere ad una domanda cosmica: che c’azzecca il ciclismo con le Olimpiadi? Intendo il superciclismo di Indurain & C., perché l’altro ci sta dentro da tempo, con grande regolarità anche se senza grande presa emotiva, senza grande impatto sull’insieme della manifestazione.
Ecco, mi hanno chiesto di mettere per iscritto - pagato: è il mio lavoro - un parere sul tennis ai Giochi, dopo le sue due nuove epifanie, a Seul 1988 ed a Barcellona 1992, ed ho trovato, consultando anche colleghi, una chiave di interpretazione. Il tennis, ho scritto, sta male ai Giochi come tutte quelle discipline sportive che non hanno nella Olimpiade il loro momento massimo. Ed ho pensato al ciclismo, appunto, nonchè al calcio. E se si vuole anche al basket, dove la Nba manda il suo «dream team» per una sorta di degnazione, e dove nel momento stesso in cui il «dream team» gioca e vince si deve ammettere che il vero gran basket con i Giochi non c’entra proprio niente.
Il ciclismo, indipendentemente dai risultati di Atlanta, non ha e - penso - non potrà mai avere nei Giochi Olimpici il suo momento massimo. Il ciclismo ha, come il tennis, troppe cattedrali classiche per i suoi culti. La sua presenza «open» nell’Olimpiade è dovuta a ragioni economiche, ed anche a paura di sparizione se non si accoglie l’invito del Cio a offrire il massimo per il massimo spettacolo (però il calcio continua a fregarsene, di questo invito, e spedisce ai Giochi i suoi giovani, supportati da alcune cariatidi).
Questa osservazione, che mi sembra tranciante, dice anche che i Giochi del ciclismo saranno sempre poco interessanti, o addirittura che il dialogo ad un certo punto si interromperà?
Penso che potrebbero addirittura verificarsi le due cose insieme. Senza nessuna lacrima, ciclistica o olimpica, di nessuno.
Dovrei andare da uno psicologo, e chiedergli come mai, ogni volta che assisto a quello che si chiama il volatone, mi prende paura, paura che qualcuno di quei ragazzi cada, si faccia male. Ho proprio male alla testa e allo stomaco. Come fossero miei figli, miei fratelli, o almeno miei cari amici.
Non provo nessuna paura assistendo alla partenza o ai sorpassi in Formula 1, vedendo motociclisti inclinati a raschiare l’asfalto con il ginocchio, osservando sciatori che vanno ai 150 all’ora su due stecchini. Non provo nessuna paura neanche alla visione di agguati più sottili, che pure conosco: il tuffatore che può picchiare la testa sul trampolino, dopo la prima capriola; il calciatore che rischia la gamba; lo schermitore infilzabile da una lama; il ginnasta che si può rompere un tendine. Tutta routine, tutta normale amministrazione di se stessi di fronte ad esigenze di rischio. Ma per i ciclisti provo autentica paura. Dev’essere un retaggio di quando la bicicletta per me spesso era soltanto sport di redazione, e mi toccava estendere la notizia d’agenzia di Manlio Fantini, italiano ucciso da una caduta al Giro di Germania: penso tanto a Fantini, chissà perché. O a Walter Martin che vola e picchia la testa sul cemento del velodromo di Torino, e ancora adesso ogni volta che lo vedo mi sembra un superstite. Non ho comunque una spiegazione pregna e pregnante. Ho agganci, ricordi, lampi magari subliminali che mi riportano in mente cadute, urla, rumori secchi, sangue, paure, tragedie.
Non so se questo mio sia un modo, persino perverso, di voler bene al ciclismo. So che quando c’è un volatone prego, e nella vita mica mi accade molto spesso di pregare.
Gian Paolo Ormezzano, 60 anni, torinese-torinista,
articolista de “La Stampa”
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