Giro, applausi a Mediaset.
E ora, cara Rai?
di Cristiano Gatti
Mentre ci cade in testa un altro Tour, l’atmosfera è pervasa da un vago e impercettibile senso di malinconia. La stagione non è finita, c’è ancora molto da leggere e da scrivere, ma qualcosa ormai s’è già compiuto. Qualcosa e qualcuno. Volti e momenti, scene e persone. Dico di Mediaset, che sta salutando la carovana tenuta in piedi per diverse stagioni. I saluti hanno sempre qualcosa di mesto, ma l’addio diventa qualcosa di molto peggio: pensando a quello che sarà, può essere tristezza allo stato brado.
Giro d’Italia: dall’anno prossimo, dicono compiaciuti in Rai, torna a casa. Lo dicono con orgoglio, e questa è anche una cosa bella: resta solo da chiarire dove mai fosse finito tutto questo orgoglio nazional-popolare durante gli ultimi Giri avuti in gestione, storiche accozzaglie di assessori a ruota libera e pedanti interviste di inviati a rutto libero. La povera vittima fu sottratta agli aguzzini di stato poco prima che esalasse l’ultimo respiro, giusto in tempo per salvarla da una morte ormai sicura. A Giro dall’encefalogramma quasi piatto, arrivò con l’entusiasmo della gioventù la televisione privata. Inizialmente fu uno choc: non era facile digerire il nudo della Badedas che si tuffava proprio mentre Indurain allungava in salita. Molti gridarono allo scempio. Ci fu anche una mezza sommossa per i modi, effettivamente spicci ed eccessivi, inutilmente euforici ed efficientisti, di molti uomini della nuova squadra. Si gridò alla morte dello sport, trucidato in mezzo alla strada dalla spietata logica dello spot.
Si urlò molto e qualche volta a ragione. Ma intanto il mezzo cadavere cominciava a dare qualche segno di risveglio, prima con le dita, poi con la mano, poi con tutto il braccio. Un giorno, quasi senza che nessuno se n’accorgesse, ce lo ritrovammo in piedi. Riprese cera e colore, perse quell’aria spettrale d’agonia e ricominciò a piacere. Tutto merito della televisione commerciale? Tutto certamente no. Ma molto sì. Se devo dire qual è il merito più grande della Mediaset, in questi suoi anni di ciclismo rosa, passo attraverso il massiccio impegno di uomini e mezzi, il poderoso investimento in ore di tramissione, la flessibilità dei palinsensti, il gusto del particolare e del retroscena, insomma rivedo molti lati positivi dell’esperienza. Però, se devo fermarmi su una cosa sola, dico questo: la televisione privata ha avuto l’enorme, impagabile, irripetibile merito di ridare al Giro una piena dignità di business. Per anni l’avevamo considerato un grigio baraccone parastatale, uno svaccato contenitore di favori e favoritismi, uno sciatto spettacolo di vizi e stravizi nazionali. Investire sul Giro? Scommettere sul Giro? Guadagnare sul Giro? Ma per piacere, ma quando mai. Schiantati e annichiliti dalla pigrizia del monopolio, nessuno riusciva più anche solo ad immaginare un Giro giovane, bello, simpatico e pure miliardario.
Adesso che l’incredibile s’è realizzato, adesso che Lazzaro cammina, si può anche star qui a parlare per settimane dei difetti e degli errori Mediaset. Ce ne sono, e come no. Più che altro, a livello puramente personale, non ho mai sopportato l’enfasi caramellosa e ottimistica con cui il Giro veniva immancabilmente proposto, questa logica aziendale per cui la vita, il mondo, gli uomini, insomma tutto il creato è una cosa meravigliosa e non si capisce come mai qualcuno riesca ogni tanto a non sorridere. Ma a parte questo vizio di visuale, io non mi vergogno di confessare che tante volte sono tornato ad emozionarmi per lo spettacolo del ciclismo televisivo, come ormai non mi succedeva più dai tempi di Gimondi sulle Tre Cime di Lavaredo. E mi chiedo, e vi chiedo: sarà ancora così anche dopo il ritorno Rai? Io spero vivamente che questa lunga parentesi Mediaset sia servita almeno a svegliare gli sveglioni che ormai affrontavano il Giro con l’entusiasmo di una sala d’aspetto dentistica. Quanto meno, in Rai sanno già da adesso che paragoni e raffronti saranno puntuali e quotidiani. Loro dicono peraltro d’essere prontissimi a raccogliere la sfida. Proclamano anzi d’essere pronti a stupirci, superando in quantità e qualità la stagione delle televisione privata. Noi, umilmente e un po’ malinconicamente, non chiediamo ovviamente tanto. Ci basterebbe che le cose restassero come le abbiamo lasciate lo scorso giugno, dopo l’ultima tappa di Milano. Vediamo se sono capaci almeno di copiare.
Cristiano Gatti, 40anni, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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