Quanto tempo ci vorrà ancora perché il ciclismo la smetta di piangersi addosso, di cercare a tutti i costi un perbenismo fasullo almeno quanto il “permalismo”, quanto per l’essere per male - il contrario di essere per bene, da non confondere con il permalosismo - che gli viene appioppato? Sì, va bene, noi siamo i drogati, ma sapeste quanta fatica a pedalare... Sì, va bene, noi abbiamo corse combinate, ma sapeste quanto poco si guadagna... Sì, va bene, noi abbiamo stasi di ore in una tappa, anche in una prova in linea, ma comunque si deve pedalare con il sole o la pioggia, nel gelo o nell’arsura... Prendiamo il ritiro di Indurain. Molto semplice scrivere la verità: si è ritirato perché le offerte della Once gli sono sembrate troppo basse, anzi ridicole, anzi offensive. Se la Once, anziché un ottocento milioni scarsi, gli offriva tre miliardi riducibili a due, magari con uno “scatto” economico enorme in caso di vittoria nel sesto Tour de France, record dei record, la consorte Marisa e il pupo Miguelito di un anno potevano ancora tirare avanti con un papà ipermiliardario ma costretto ad andare in giro per il mondo a pedalare. Invece ecco il perbenismo, lui lascia e la sua diventa una scelta di vita, uno sventolio assoluto della bandiera della famiglia, quasi una lezione. Come se il ciclismo non potesse permettersi un campione ricchissimo che ad un certo punto dice: o mi date così tanti soldi da incrementare in maniera importante la mia ricchezza, oppure smetto, ho già abbastanza denaro per vivere bene, io e le sette generazioni successive di Indurain. I tennisti - Sabatini ed Edberg, tanto per fare gli ultimi nomi - lasciano perché definitivamente pieni di miliardi e si pubblica il loro conto in banca, con realismo. Indurain lascia e non c’è una riga sui suoi miliardi: che non devono essere molti di meno di quelli dei racchettari. Il ciclismo ha troppo orgoglio della sua ex povertà, troppo pudore dei suoi freschi guadagni. Quando è stato sfiorato il tetto del miliardo annuo di guadagno di un corridore è passata nella categoria come una tacita parola d’ordine: parlarne poco, se possibile non parlarne proprio. Probabilmente il primo è stato Merckx, poi ecco Hinault, ecco lo stesso Bugno. Però guai, certe cifre nel ciclismo sembrano bestemmie, “non stanno bene ”, mentre in altri sport sono fiori all’occhiello. C’è del tenero, c’è del patetico, del buono in questo pudore. Ma c’è anche una paura vicina all’ipocrisia.
Alzi la mano chi, nel mondo del ciclismo, quando ha appreso che il calciatore Roberto Baggio è stato vittima di una truffa, che lo avrebbe portato ad una perdita di sei-sette miliardi, teoricamente diventati azioni di una cava di marmo nero in Perù, alzi una mano chi non ha provato una sorta di soddisfazione. Alzi la mano e gliela tagliamo, come si fa in certi paesi con i ladri (in questo caso, trattasi di ladro della fiducia). Non c’entra personalmente Baggio, si capisce, a cui nessuno vuole male, e le cui disavventure possono provocare un moto di comprensione e persino solidarietà, estesa anche ad altri suoi compagni di sport e di azionariato marmistico. Però c’entra il mondo del calcio, che in Baggio ha avuto un elemento di punta sul fronte dei guadagni rapidi e tutto sommato facili. I ciclisti e i calciatori fanno finta di essere amici, e però non c’è niente di più falso dei sodalizi esibiti, ad esempio quando stanno insieme ad una festa, ad una premiazione. Si salutano, magari si abbracciano, ma soprattutto si annusano. Sotto sotto il ciclista pensa che quello lì, il calciatore, è un fortunatone, a prendere tutti quei soldi facendo ciò che molti fanno per divertimento, cioè giocando al pallone. Sotto sotto il calciatore pensa che quello lì, il ciclista, è un grande sfigato, fatica come un matto per un guadagno annuo magari inferiore al premio-scudetto, per non dire al premio di una singola partita, però conclusiva di un torneo, ma è anche un vittimista che fra l’altro recita pure male. La disavventura di Baggio è parsa, a molti del ciclismo, una specie di riequilibratura delle sorti, dei destini facili e difficili. Minore sarebbe stata la soddisfazione (massì, usiamo questo termine) se si fosse trattato di un campione miliardario di Formula 1, di un tennista. Lì c’è rispetto, e per il “coté artistique” dello sport praticato, nel caso del tennis, e per il rischio della vita insito nell’automobilismo. Il calcio è invece ritenuto dal ciclista territorio in qualche modo di tutti, territorio anche suo in quanto dello sport, territorio dove però altri fanno razzie prendendosi le miniere di diamanti, raccogliendo quasi tutte le pepite auree in riva ai fiumi, stando quasi fermi o facendo poca fatica.
Una volta: il belga anzi il fiammingo; il francese; l’olandese; lo spagnolo. E - si capisce - l’italiano. Ora: il russo; l’ucraino; l’uzbeko; il ceko; lo slovacco; il colombiano; il danese; l’inglese anzi lo scozzese; lo statunitense. In pochissimi anni la mappa del ciclismo è cambiata profondamente, è stata quasi tutta ridisegnata e reintitolata. Una nomenclatura nuova, oppure il rilancio di una nomenclatura prima trascurata. Finiti certi stereotipi, di solito ancorati a pregiudizi razziali (oh il grande caro Brera quando decise ufficialmente che il giovane promettente Merckx non avrebbe mai vinto un Giro d’Italia, e non parliamo del Tour de France, perché fiammingo polentone del Nord). La gente del ciclismo abituata a certi postulati, per non dire a certi dogmi, fatica con la nuova geografia. Un danese che vince il Tour, sotto il sole, le sembra un’eresia, per non dire una bestemmia. Ci vorrebbero dei corsi accelerati, almeno ai vecchi. Ma chi li tiene, chi può, chi sa tenerli?
Gian Paolo Ormezzano, 60 anni, torinese-torinista,
articolista di “Tuttosport”
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