Rapporti&Relazioni
La bici deve inventarsi nuovi spazi
di Gian Paolo Ormezzano

All’occaso dell’attività di giornalista militante, mi trovo ancora a combattere contro colleghi che dicono:
∂ che il ciclismo perde d’interesse perché schiantato dalla motorizzazione;
∑ che le grandi folle sulle strade, quando passa una grande corsa, sono lì perché lo spettacolo è gratuito.
Ho dovuto battermi contro tante affermazioni cretine, e probabilmente tante ne ho emesse anch’io. Però questa volta mi sembra che le cose siano chiare. Nel senso che le due affermazioni non solo possono, ma debbono essere controbattute.
Prima affermazione, quella sulla motorizzazione: è stato vero che l’auto e la moto hanno colpito duramente la bicicletta, ma il presente è fatto ormai di motorizzazione che esalta la bicicletta, nel senso che la rende sempre più utile, sempre meglio salvifica. L’impatto della motorizzazione è finito, anche perché non ci sono più spazi per essa. Il ciclismo è diventato possibilità (e presto sarà regola) per sopravvivere. La motorizzazione dittatoriale ha fatto rinascere voglie forti di libertà: si pensi al podismo, alle grandi maratone. Credete che New York avrebbe inventato la sua fantastica rassegna pedonale se non avesse patito la motorizzazione?
Il problema del ciclismo non è più la motorizzazione. È la presentazione di se stesso, alla gente, in altri modi che non con il vecchio cliché epico, fachiristico della sofferenza in bicicletta. E poi è il problema delle piste ciclabili, delle strade sicure. Mi viene in mente quello che dissi una volta a Firenze, intervenendo in un convegno sul cicloturismo. Scandalizzando assai, speculai su un incidente che era costato qualche ferita, mentre andava in bicicletta, all’allora segretario dell’allora partito repubblicano, Oddo Biasini, romagnolo ciclofilo. Auspicai a pro del ciclismo un ferito ancora più illustre, un pedalatore importantissimo travolto da un’auto infima: per usarlo come martire. Il progetto cinico vale ancora adesso.
E passiamo alla seconda affermazione. Io dico a quei miei colleghi che il ciclismo spesso è, per lo spettatore, uno degli sport più cari del mondo. Vero che non si paga - non sempre, però, basti pensare al campionato del mondo - il prezzo del biglietto. Però di solito si va a cercare un buon posto, per vedere la corsa quando arriva da lontano, e questo costa, in tempo e fatica. Quando si va su qualche montagna, a fare siepe di folla ai corridori, si paga in tempo, in fatica, in benzina per lo spostamento con l’auto oppure calorie per lo spostamento in bicicletta, in freddo, talora anche in raffreddore. Se il giorno è feriale, si può pagare anche in mancato lavoro, in mancato guadagno. Andare a vedere una tappa di montagna del Giro o del Tour costa decine di migliaia di lire, spesso costa di più che andare allo stadio per la partita di calcio. E non parliamo dell’impegno fisico. Persino per sfamarsi e dissetarsi si spende «extra».
Naturalmente quelli del ciclismo sovente hanno paura di dire queste cose. Preferiscono parlare di motorizzazione pitonesca, avvolgente, soffocante, feroce. E si vergognano di dire che offrono soldi e tempo e fatica per andare su una montagna, magari lontanissima, a vedere un rapido passaggio di corridori. Potrebbero definirsi ribelli epocali, con le bici contro le auto, e spettatori raffinati, capaci di sacrifici, capaci di cogliere dall’evento poesie speciali, qualitative e non quantitative: come quella del sognarsi la corsa tutta sulla base di poche immagini, guadagnate con tanta fatica ed elaborate con tanto sentimento. Ma ciclista fa rima con masochista.

Arvier, in Valle d’Aosta, è il paese dove nacque Maurice Garin, lo spazzacamino che per lavoro si fece francese e vinse il primo Tour. Lì ogni anno premiano il ciclista del Tour con lo spirito di Garin, il senso del coraggio, dell’avventura. Sono già stati premiati Pantani italiano e Indurain spagnolo, per il 1996 sembra che la scelta sia caduta su Virenque francese, lo scalatore che non si perde una salitella pur di far punti e conquistare la maglia a «pois».
La cerimonia è molto bella, oltre che opulenta, nel senso che il vincitore riceve un lingotto d’oro: e siccome sono io il presentatore, posso testimoniare che lo stesso Indurain, che pure è ricco a miliardate, si è stupito del peso di quel metallo, un peso che dice la ricchezza meglio di un assegno di valore cento volte superiore.
Ad Arvier convengono quel giorno (credo che per il ’97, cioè per la premiazione del 1996, la data sia quella del 21 marzo, antivigilia della Milano-Sanremo) personaggi importanti del ciclismo, ma soprattutto c’è l’ottima gente della comunità montana, ci sono gli epigoni di Maurice Garin. È una bella festa, di quelle che il calcio, toh, non riesce mai ad organizzare.
Non ho prove ma sono certo che un calciatore celebre, non appena ricevuto in premio un lingotto d’oro, non saprebbe dove metterlo. Il ciclista invece se lo tiene vicino, lo coccola con la vista. La stessa reazione diversa è constatabile di fronte ad un piatto di prosciutto crudo: il ciclista ha per esso uno sguardo di avido ringraziamento, il calciatore di sazietà ancora prima di averlo mangiato.

Gian Paolo Ormezzano, 60 anni, torinese-torinista,
articolista de “La Stampa”
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