Una televisione con sigla importante, Odeon, manda continuamente in onda, debbo pensare non soltanto nel mio paesello che è Torino, spezzoni notturni di un film che fu un successo comico, «Totò al Giro d’Italia», nel quadro di una rassegna dedicata alle risate all’italiana. Un Totò dall’aspetto fisico inedito, con pizzetto, fa un patto col diavolo e arriva al Giro, per correrlo. Preso in berlina da tutti, si aggiudica tappa dopo tappa con sconvolgente facilità, trovando il tempo, in gara, di civettare con belle donne, e fuori gara di godersi scampoli di dolce vita. Fuma, per esempio, giganteschi sigari, di gran pregio, e accade che al via di una tappa tutti i grandi campioni, per imitarlo, fumino anche loro, un grosso sigaro a testa, ovviamente cercando ognuno di non farsi notare.
La comicità è di grana grossissima, però funzionicchia ancora: e si badi che è un Totò tutt’altro che classico, un Totò ben al di fuori del suo repertorio tutto sommato comodo e valido perché collaudatissimo. Partecipano al film campioni «dal vivo», Coppi che fa Coppi, Bartali che fa Bartali, Bobet che fa Bobet, Magni che fa Magni. Ci sono le voci vere di alcuni dei campioni, in linea di massima sempre a loro agio davanti alla macchina da presa. Presenze molto tenere ma non mai patetiche, molto scontate ma non mai banali.
Siamo certi che un film di questo tipo sul calcio sarebbe stato, allora, e sarebbe più che mai, adesso, una cretinata somma, una bufala insopportabile, anche se interpretato dal miglior Totò. Questo cosa suggerisce? Che il ciclismo sia meglio malleabile, anche dalla farsa più grossolana, del calcio? Che il ciclismo sia a priori molto buffo, i ciclisti siano a priori molto buffi? Perché Totò non ha mai portato la sua comicità fra i calciatori? Perché non mai un «Totò con la nazionale di football», un «Totò al derby del pallone»?
Lo spezzone, abbastanza lungo, è stato proposto per molte sere, insieme ad altri «classici», su tutti l’Alberto Sordi di «Un americano a Roma». Dopo alcune volte, abbiamo giocato personalmente al gioco di individuare tutti i corridori, anche quelli di secondo piano. Molto divertenti anche le scene della corsa, con radiocronisti così incredibili e assurdi da risultare molto simili, appunto perché incredibili e assurdi, ai loro colleghi della vita reale, anche se non è possibile nessun accostamento personale specifico. I giornalisti della stampa scritta sono essi pure così stereotipati e intanto bislacchi da sembrare fortemente attuali.
Il ciclismo non solo ha permesso questa esercitazione su se stesso, ma tutto sommato ne gode ancora adesso. Vengono fuori i suoi aspetti, i suoi sapori diremmo, di semplicità, di umanità. A ben pensarci, il ciclismo ha spesso goduto di un buon cinema, o quanto meno di un cinema affettuoso. Si pensi allo strepitoso film documentario di Louis Malle, «Vive le Tour», che si chiude con il sorriso dolce di Felice Gimondi vincitore nel 1965. Si pensi al tenero, ingenuo ma valido «All-american boys», titolo italiano anche se non in italiano di «Breaking away», che nel nostro ciclese significa spezzare il gruppo e dare vita ad una fuga. Si pensi a cosa non ha avuto, dalla settima arte, il calcio, che aspetta ancora non diciamo il capolavoro, e neppure il lavoro affettuoso, e neppure il prodotto comico, ma che ha avuto addosso, parlando di cinema, soltanto emerite porcherie. A queste cose ci fa pensare il Totò che pedala di notte: e cresce il nostro grazie già cosmico al principe Antonio De Curtis.
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Mi è venuto in mente il fisioterapista di Roger Rivière, grande campione mezzo inespresso degli anni Cinquanta, finito per il ciclismo al Tour 1960, quando in discesa volle seguire il «folle» Nencini poi vincitore a Parigi, uscito di vita presto dopo aver frequentato la droga e la rapina. Questo fisioterapista si chiamava Wanono, aveva origini euroasiatiche, era fra l’altro amico personale di Helenio Herrera, per il quale curava, miracolosamente, quei giocatori dell’Inter che la scienza ufficiale aveva dichiarato irrecuperabili e dei quali invece il mago voleva disporre per quella certa partitissima. Wanono ad un certo punto disse: «Per curare Rivière mi affatico molto, massaggiandolo, stirandolo, lavorandolo, mi consumo così tanto che mi trovo costretto persino a drogarmi». Il ciclista, che voleva tornare a tutti i costi alla competizione, pativa tremendi dolori alla schiena, perché la caduta gli aveva causato problemi alla colonna vertebrale, e ogni seduta di fisioterapia era lunghissima, terribile.
Mi è venuto in mente quando si è chiesta ancora una volta una legge precisa, efficace, completa sul doping o meglio sull’antidoping, una regolamentazione globale e univoca. Per riuscire a districarsi nell’immane confusione, per stilare la legge in un giusto lasso di tempo, per avere in questo lavoro la necessaria brillantezza fisica, per resistere a tutte le pressioni, per guadagnare una sorta di lucidità speciale, e pazienza se artificiale e provvisoria, uno, uno esperto e volenteroso e martire, dovrebbe sicuramente ricorrere a qualche droga.
Gian Paolo Ormezzano, 61 anni, torinese-torinista, articolista di “Tuttosport”
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