San(t)a voglia di ciclismo
di Gian Paolo Ormezzano
Conosco un giornalista, molto noto nel mondo delle due ruote, dentro il quale è bene cresciuto, che segue anche lo sci, e che già prima di partire per i Giochi Olimpici invernali di Nagano aveva voglia di ciclismo, gli sarebbe bastato quello primario del Trofeo Laigueglia, lo diceva a tutti, comunque a tutti lo faceva capire. Conosco un famoso allenatore calcistico, attualmente impegnato nella serie A, che quando è inverno non vede l’ora, parole sue, «che comincino le corse in bicicletta, nella Spagna andalusa, in Costa Azzurra, finalmente in Italia». Conosco importanti uomini d’affari, politici molto celebri, bipedi assai impegnati culturalmente, intellettualmente, artisticamente che ormai da troppi anni si chiedono con triste competente tenerezza come mai nessun italiano vince il Tour de France, e che comunque all’inizio di ogni stagione si applicano a scrutare i destini della creatura, si chiedono se per davvero Michele Bartoli correrà il Giro d’Italia e se sì per cercare quali traguardi.
Conosco di me stesso le crisi di astinenza da ciclismo pedalato: le voglie che una volta riuscivo a definire come «di Sanremo», adesso sono più complesse, appartengono al dominio onirico e a quello magico. Per esempio mi scopro a sognare un’Italia in cui la Nazionale di calcio è appena stata umiliata ai Mondiali in quella terra di Francia dove il Tour approda dopo l’avvio in Irlanda, quando la finale è appena stata giocata, e un italiano, mettiamo Marco Pantani, che domina il Tour, e la gente che lascia il giocattolo solito e ne sceglie un altro, oppure se ne frega (e allora il sogno si evolve, si corrompe in incubo).
Penso che nessuno sport generi una voglia simile nei suoi cultori, anche nei suoi voyeurs.Una volta era così per l’atletica leggera, che però adesso, con i campionati indoor, quelli del sole al neon, e con i cross della brutta stagione riesce a proporsi quasi senza soluzione di continuità. Gli altri sport o sono chiaramente, persino sfacciatamente stagionali, o stanno, magari fasullamente però credibilmente, al di sopra del fluire delle stagioni. Il ciclismo avrebbe la pista, ha il ciclocross per rifiutarsi alle leggi climatiche, non è più stagionale da che ha scoperto i tropici e gli antipodi, però genera voglie che sono legate a certi mesi, al fluire che ormai si può definire classico, anche nel senso di climaticamente superato però intanto di antiquariale, delle stagioni. E genera di queste voglie, che senz’altro rispondono ad un ribollire del sangue e dei pensieri, insomma dei sentimenti.
Voglia di ciclismo, voglia di uomini che pedalano sotto il primo gran sole o l’ultimo gran freddo, voglia di Milano-Sanremo ma ormai anche di tanto altro pedalare, geograficamente parlando. Voglia di uno sport che puzzi e profumi di fatica, dove chi è primo è primo senza bisogno della decisione di un arbitro, dove ci sono più corsari che pirati, dove la chimica viene praticata sotto i più feroci controlli e ai più alti tassi di interesse, da pagare poi in carne viva. Sadica voglia di fachirismi degli altri, masochistica voglia di fachirismi personali, per seguire questi altri.Non certamente povera, misera, panciuta voglia di televisione. Il ciclofilo conosce, di un ordine d’arrivo, il sapore, l’odore - non diciamo soltanto la rappresentazione museale, l’imbalsamazione delle immagini per informazione e archivio - già soltanto alla lettura, alla comunicazione orale.Il tam-tam fra ciclofili funziona benissimo: c’erano ancora le scie di Nagano e già nella nostra tribù ci dicevamo che Figueras aveva vinto in Malesia. In Malesiaaa!?! In Malesia.
Non siamo personalmente propensi a rintracciare in questa voglia dei sottintesi, dei sottofondi. Non ci sentiamo privilegiati a poterla, a saperla frequentare. Non ci sentiamo assolutamente monaci custodi di privilegi segreti, inaccessibili agli altri anche perché in linea di massima gli altri di essi se ne fregano. Non vogliamo contagiare nessuno con le nostre voglie.Pensiamo che l’esclusivizzazione dei riti sia un handicap per il ciclismo, anzi per lo sport moderno, che infatti in linea di massima tende ad essere generalista come un qualsiasi network di emittente televisiva commerciale. Non siamo antiquari di noi stessi. Semplicemente rivendichiamo il diritto di essere felici per questa voglia che ci possiede, anzi che ci ha già posseduti, visto che siamo ormai dentro alla stagione.
A pensarci bene, anche l’amico-nemico calcio aveva una voglia simile, la frequentava in attesa del campionato. Ricordo che una volta Antonio Ghirelli titolò così la prima pagina del suo Tuttosport dedicato alla ripresa del grande torneo: «Torna fra noi un vecchio amico».Adesso il calcio affronta, a proposito di voglie finite, due problemi, due quesiti: quello persino sofisticato se non sia il troppo football amichevole, quello di agosto per intenderci, molto ma molto televisivo, in un periodo poi di stanca degli altri programmi, a vietare certe voglie, quello cosmico e tragico se ormai il campionato consueto non abbia finito il suo ruolo calamitoso (nel senso di calamita ed anche, se si vuole, di calamità morbosamente affascinanti, o almeno interessanti), se insomma il campionato, inteso così come quello di una volta, che serviva anche a provocare certe voglie, molto semplicemente ma anche molto tristemente non esista più. Povero calcio, povero ricchissimo calcio.
Gian Paolo Ormezzano, 61 anni, torinese-torinista,
articolista di “Tuttosport”
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