Scripta manent
Pantani e quel grumo di perversione
di Gian Paolo Porreca

Qui, dove ormai solo per sentito dire dovremmo parlare dello sport della bicicletta e della sua serena contesa, siamo obbligati invece a scrivere di un primo Ciclista famoso, italiano, e di un secondo Ciclista più famoso ancora, straniero. E del loro ruolo di protagonista, passato ed attuale e futuro. E del loro dissidio, puntualmente rinvigorito.
Ci chiediamo, ancora, di tanto in tanto, quanto bene e quanto male incredibilmente sia riuscito a fare il primo. Quel Ciclista italiano che ci portava su le montagne che in tanti non abbiamo mai visto, ma che con lui abbiamo vinto. Quel Ciclista illimitato, ad onta delle minute e ferite dimensioni del corpo; illimitato, come un’anima pura. Sì, illimitato ed immacolato, come al Tour del ’98, quando i cattivi, i malintenzionati prendevano dal ciclismo un presunto ultimo commiato. Ed il vincitore cantava vittoria anche per noi. Quel Ciclista che non era il Tedesco, non era il Francese, ma un Italiano primo a Parigi 33 anni dopo Gimondi, 33 anni, l’età giusta per un Messia.
Meglio ancora se in bici.
Ci chiediamo, al ricordo ormai neutro, quanto bene e quanto male sia riuscito a fare quel ragazzo per merito o per demerito proprio, dopo quelle vittorie empiree ed il successivo coinvolgimento in una serie di vicende di ordine farmacologico e giudiziario, di segno intensamente grigio, che non consentono ulteriori dilazioni sentimentali, al di qua della riprova.

E quel secondo Ciclista più famoso ancora, quello dei tre Tour vinti alla grande, gli ultimi tre Tour della storia, dopo aver sbriciolato gli avversari. Quello che entrò nel ciclismo dei grandi, a suo tempo, con la maglia iridata bagnata di Oslo nel ’93 e poi fu costretto ad abbandonare la platea agonistica, nel ’96, per una gravissima malattia. Il secondo Ciclista, si sa, è stato operato, rioperato, sottoposto a squassanti cicli di radio e chemioterapia per la neoplasia testicolare prima e poi per le metastasi cerebrali e polmonari, testimonianze sinistre della disseminazione della patologia. Ha ripreso a gareggiare a fine ’98, lo ricordiamo a Valkenburg, ancora nella pioggia, come quell’altro più giovane pomeriggio di cinque anni prima, quello di Oslo appunto.

Del suo calvario, della sua battaglia è emblematico diario un libro, l’abbiamo scritto e segnalato già altre volte, «Non solo ciclismo», autobiografia di una Passione. Di questo libro, sottotitolato “il mio ritorno alla vita”, abbiamo presente sempre il frontespizio, una sequenza di identità, impersonificate dall’autore: “vincitore del Tour de France - sopravvissuto al cancro - marito - padre - figlio - essere umano”. Ed una pagina, ancora, pagina 117, quando l’autore-Ciclista racconta come nel corso del terzo ciclo della chemioterapia gli fosse stato prescritto “ironicamente” un trattamento a base di EPO, per combattere la grave anemia prodotta dai farmaci antineoplastici. Quell’EPO utilizzata dai ciclisti perché fa migliorare le prestazioni agonistiche, «ma nel mio caso l’EPO non aveva quell’effetto: era l’unica cosa che mi manteneva in vita». Di questo secondo Ciclista, recentemente, dopo il sequestro del modesto Actovegin, si sono sottolineate e discusse alcune frequentazioni pericolose, come in specie quella con il pluriinquisito dottor Ferrari.

Ognuno è padrone della sua vicenda umana ed è responsabile dei propri comportamenti e delle proprie affermazioni, tanto più in un’epoca come la nostra che santifica il presenzialismo sui media e che ha della privacy una interpretazione solamente di comodo. Meglio il chiasso che non il silenzio, su di noi...
Ma nella corsa parallela, fra il Ciclista italiano ed il Ciclista straniero, si è oggi valicato a nostro avviso un limite di “non-ritorno” alla civiltà, anzi alla umanità, dei rapporti: un break che va francamente ed amaramente denunciato. Tanto più in un contesto che attiene, o dovrebbe attenere, il che è più aderente alla realtà, allo sport.

In una dichiarazione apparsa a pagina 247 del Televideo Raidue del 19 febbraio, il Ciclista italiano, Marco Pantani, dopo aver affermato che non ne può più di polemizzare con l’altro corridore, Lance Armstrong, dichiara testualmente: «Armstrong è un furbo. È stato bravo a sfruttare la sua malattia». Qui non ci siamo più anzi, proviamo uno sgradevole disagio. Noi, per lui. Se Pantani, fra le righe, vuole rinfocolare il dubbio sul sussidio farmacologico utilizzato da Armstrong, per migliorare le qualità di difesa e/ripresa del suo organismo nei riguardi di una malattia che nelle sue condizioni cliniche prevedeva il 50% di morte - lo ribadiamo ’sto termine, MORTE? -, padronissimo di farlo, se ne ha coscienza. Così come di pensare che la simpatia popolare universale che arride ad Armstrong sia legata alla sua “storia americana”: un film a lieto fine, anni ’30, stile Frank Capra, con James Stewart quale controfigura semmai...

Fermo restando che nel ruolo di redivivo ciclista professionista Armstrong non è più un malato in trattamento, ma un concorrente esposto ai controlli ed ai rischi di un gregario qualsiasi, crediamo davvero che Pantani abbia perso una grandissima occasione per dimostrarsi uno sconfitto magnanimo.
Il rischio paradossale, “bravo a sfruttare la sua malattia”, per quel grumo di perversione che si annida ancora nelle spire del plotone, è il far credere che in fondo ammalarsi di un cancro possa essere la migliore scorciatoia per vincere un Tour! Anzi, fra pappa reale e vitamine, ricostituenti ed immunostimolanti, addirittura tre Tour di fila... Il che, credeteci, è una ipotesi alienante, o una immaturità assolutamente imperdonabile. (In specie nel rispetto di quel 50% di pazienti malati alla stregua di Armstrong, che non hanno avuto la sua stessa buona sorte. Ed ai quali bastava la vita, altro che il Tour).

Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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