Viviani: «Il mio murales ha spazio per nuovi mattoni»

di Giulia De Maio

Non sarà stato un anno d’oro come sognava, ma l’argento gli dona e gli ha permesso di chiudere il cerchio. È un me­tallo di valore, non da tutti e non scontato, soprattutto a 35 anni, ma ben si addice ad Elia Viviani. Il “profeta” del nostro ci­clismo su pista, l’uomo che ai mondiali in Dani­marca a metà ottobre ha dimostrato ancora una volta di avere l’argento vivo addosso. 
Alla fine della sua 15esima stagione tra i professionisti, l’ennesima medaglia gli penzola al collo: è l’ottava che ha saputo conquistare in una rassegna iridata e sono passati 13 anni dalla prima, d’argento anch’essa, conquistata nello Scratch. Era il 2011, questo emergente ve­locista veronese aveva compiuto da poco 22 anni ed era solo all’inizio di una carriera da ap­plau­si. All’argento nell’Americana e al bronzo nell’Om­nium del 2015, sarebbe seguito l’agognato oro nell’Eliminazio­ne nel 2021, confermato anche l’anno se­guente e al­tri due bronzi, nell’Omnium nel 2021 e nell’Elimina­zione nel 2023. 
Questa vol­ta, mentre la bandiera tricolore si alza, il capitano della Nazionale Italiana è sul secondo gradino del po­dio mondiale di Ballerup 2024 al termine dell’Eliminazione, in cui si è dovuto inchinare solo al 22enne padrone di ca­sa Tobias Hansen. Pochi mesi fa aveva condiviso lo stesso piazzamento con Simone Consonni dopo una Madison da incorniciare: la medaglia d’argento che Elia si è messo al collo alla sua ultima partecipazione ai Giochi Olimpici è andata a completare il suo bottino a cinque cerchi, che già contava l’oro di Rio 2016 e il bronzo di Tokyo 2021 nell’Omnium. Non serviva un’ulteriore conferma per dimostrare la classe e la fame dello sprinter in forza alla Ineos Gre­nadiers, ma vederlo battagliare alla pari con le nuove leve che incalzano, al­la fine di questa intensa stagione olimpica, è il miglior insegnamento che l’apripista del movimento azzurro lascia in eredità ai giovani pistard che tenteranno di seguire le sue orme. 
Elia, qual è il segreto della tua longevità agonistica? 
«La pista mi diverte. In questa annata su strada non ho raccolto niente, ma il focus era sui velodromi ed essere sa­lito sul podio sia all’Olimpiade sia al Mondiale ha valore. È la dimostrazione che quando punto un obiettivo e lavoro sodo, lo posso raggiungere. Ne sono sempre stato convinto».
L’età è solo un numero? 
«Sì e non vale solo per il sottoscritto. Il tedesco Kluge ha vinto un oro iridato nell’americana a 38 anni. Il danese Morkov quello olimpico, sempre nell’americana, a 36. Nel ciclismo di oggi bisogna fare delle scelte, più di qualche anno fa. Ormai è imprescindibile selezionare gli obiettivi lungo l’arco della stagione e curare nel dettaglio tutti gli aspetti in funzione di quelli. Il ciclismo moderno è fatto da dominatori. Nel 2018 e 2019 su strada vinsi 18 e 11 cor­se. Philipsen l’anno scorso ne ha vinte 19, Pogacar quest’anno 25. Il nostro Jonathan Milan ha alzato le braccia al cielo 11 volte e già ci si domanda se riuscirà a battere i record di Petacchi o di Cipollini».
L’argento non vale oro. 
«Già, ma il mio quarto podio consecutivo iridato dal 2021 (con due ori) nel­l’eliminazione va considerato co­mun­que un bel risultato ed è inutile avere rimpianti. Questa volta ho corso la “mia” gara meno da furbo e puntando tutto sulle gambe, pedalando spesso in testa. Avevo in mente il declassamento all’Olimpiade (era una prova dell’Om­nium, ndr) e non volevo rischiare. Ho gareggiato bene, non posso recriminare nulla. Nel finale, quando siamo rimasti in due, il mio avversario ha avuto uno sprint superiore. La testa era brillante per pensare, le gambe non lo sono sta­te altrettanto per rispondere al suo spunto».
È stata una stagione lunga e faticosa per tutti gli atleti olimpici. 
«Dopo i Giochi speravo di riuscire a raccogliere qualcosa su strada, ma la scelta di non staccare dopo Parigi non ha pagato. Le pressioni sono state tante, la preparazione è stata intensa, ne sono uscito provato. Pro­ba­bil­mente la cosa migliore da fare sarebbe stato concedersi uno stop e ripartire per il finale di stagione, ma comprensibilmente la squadra mi ha richiamato all’ordine e ho dovuto rispondere presente. Siamo arrivati in fondo con le energie misurate. Questo era l’anno della pista e le medaglie sono arrivate, quindi non posso essere scontento». 
Ineos ha sofferto l’aver avuto per tutto l’anno a mezzo servizio te, Ganna ed Hayter? 
«L’ha ac­cettato come nelle passate sta­gioni, senza fa­re una piega. Se­condo me quello che è cambiato è il valore che hanno avuto le medaglie conquistate. Ho come la sen­sazione che negli anni precedenti, a Rio come a Tokyo, la mia medaglia olimpica valesse molto di più per il team. Invece adesso è stato come se avessero det­to: “Diamo libertà agli atleti, però non è che di queste medaglie olimpiche ce ne facciamo qualcosa”. Questa è la differenza che ho colto con il cambio di management. Brailsford ed Ellin­gworth venivano dalla pista… Ad ogni modo, se come squadra avessimo vinto 50 corse e non 14, il problema neppure si sarebbe posto».
Il peso dell’Olimpiade però è innegabile. 
«Lo vivo sulla mia pelle. Adesso che non vinco gare importanti su strada da un po’, sono ancora Elia Viviani che ha vinto l’oro di Rio, ben più di Elia che ha vinto cinque tappe al Giro, una al Tour, tre alla Vuelta. Dedicarmi alla pista negli ultimi tre anni mi ha penalizzato su strada, ma non ho rimpianti. Quando sono passato alla Cofidis non le ho dato troppa importanza, ma visto che nel 2020 e 2021 le cose non erano andate, mi sono buttato su Tokyo per far vedere che c’ero ancora. Tornato nel gruppo Sky ho messo la strada in secondo piano. Sapevo che Ineos non mi avrebbe portato al Giro, quindi non avrei potuto inseguire grandi obiettivi, mentre nei velodromi ho sempre potuto ritagliarmi il mio spazio».
Velodromi che lasci in buone mani vedendo le prestazioni di Jonathan Milan e il resto della squadra azzurra... 
«Jonny ha vinto l’inseguimento col re­cord del mondo, un’impresa notevole. I risultati di questi mondiali per la no­stra Nazionale sono stati in linea con il 2023. I picchi del 2021 e del 2022 non si sono ripetuti, ma raggiunto un livello del genere, confermarsi oppure migliorarsi è dura. È probabile che nei prossimi due anni faticheremo un po’. Qual­che corridore lo “perderemo”, Mi­lan e Ganna si concentreranno di più sulla strada, ma questa sfida a colpi di re­cord nell’inseguimento po­trebbe stimolare entrambi. Nel prossimo biennio, andranno individuate le forze fresche su cui puntare verso Los An­geles 2028. Ci dovrà essere una ricostruzione, il futuro va impostato adesso».
Se fossi in Milan o Ganna, che strada intraprenderesti? 
«Nelle nostre chiacchierate ho usato questa metafora: devono posizionare bene i mattoncini della loro carriera, per comporre il proprio murales. È chiaro a tutti che Jonathan l’anno prossimo deve provare a vincere la Gand-Wevelgem e poi andare al Tour per di­mostrare di essere il velocista più forte al mondo, così come Pip­po deve puntare al successo che gli manca in una classica monumento. Anche lui con la Grande Boucle si è cimentato solo una volta e vorrà tornarci. Per entrambi, ma soprattutto per Pippo visti i suoi 28 anni, le prossime due stagioni devono essere quelle della raccolta grossa su strada, come furono il 2018 e il 2019 per me. Nel frattempo verranno fuori i percorsi delle Olim­piadi e magari, se saranno duri, li ve­dremo tornare alla pista».
Per chi la ama dobbiamo quindi sperare in un ritorno di fiamma. 
«Non è escluso che tornino, sia uomini che donne, perché il richiamo per chi ha già vinto una medaglia è fortissimo. In più pare che UCI e CIO siano convinti che il percorso di Parigi fosse mor­bido, per cui chi può dire come sarà quello di Los Angeles? Questo gruppo potrebbe tornare in pista, dato che ha già fatto la storia, ad ogni modo il CT Marco Villa e tutto lo staff della Nazionale sono già all’opera per ricreare un’ottima base di giovani. Il settore junior sta dando ottimi segnali, bisognerà stare attenti allo scalino juniores-under 23, che è quello che spaventa tutti, anche su strada. A mio parere i ragazzi di talento in Italia ci sono. So quanto sia duro stabilire un 3’51” nel quartetto e se lo fanno da juniores, vuol dire che procedendo per gradi con i giusti tempi, possono entrare nei treni olimpici».
Pensando al tuo futuro, che maglia indosserai nel 2025? 
«La possibilità che vedo più realizzabile è quella di restare in Ineos, dove stiamo vi­vendo una fase di transizione. Sarebbe difficile cambiare team e co­minciare un altro progetto a 35 anni, anche perché le squadre stanno prendendo altre direzioni. Voglio tornare a vincere, in particolare al Giro d’Italia. Mi immagino ancora a braccia alzate, non come ultimo uomo di un giovane sprinter. Non perché non abbia l’umiltà di tirare le volate ad altri, probabilmente l’unico per cui avrei potuto farlo in effetti è Milan perché abbiamo un rapporto di fratellanza in Nazio­nale, ma ci sono troppi dubbi di natura tecnica, da parte mia, su come si affronta quel ruolo e in un anno non lo impari. Lo abbiamo visto con Con­sonni alla Cofidis: allora non fu facile, ma cinque anni dopo Simo è uno dei più forti al mondo in quel ruolo. Io voglio disputare ancora le volate per provare a vincerle. È questo l’ultimo mattoncino del mio mulares».

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