Rapporti & Relazioni

Chi l'ha detto?

di Gian Paolo Ormezzano

Questo è un intervento strettamente personale di un giornalista che ha se­guito il suo primo Giro d’Italia nel 1959, gliene ha incollati professionalmente altri 27, ama il ci­clismo, e a suo tem­po passò per ere­tico fra i santoni del­la bicicletta. Questo giornalista ri­tiene che sia sbagliata la diagnosi scaturita dall’ultimo Giro d’Italia e riferentesi a un po’ tutto il ciclismo, già “colpito al Tour dalla vittoria di uno sloveno su un altro sloveno, due cioè di un Paese senza tradizioni. Era, quello del 1959, ancora  il ci­clismo dei giornalisti cantori, epigoni stretti di quelli del cosiddetto ciclismo eroico. Coppi era vi­vo, Bar­tali imperversava alla te­levisione, Za­voli inventava il Processo alla tap­pa. Il fattaccio dello sciopero recente da fighetti al Gi­ro è altra cosa, il nostro intervento vuole essere più vasto e pazienza se meno cattivante per attualità, più diluito nel tempo e nei fatti e nelle persone.
Passo alla prima persona che de­te­sto, mi sa di prosopopea e dogmatismo, ma devo usarla perché mi sen­to davvero abbastanza solo. Leg­go di nostalgia per il ciclismo di una vol­ta, quando i corridori si­curamente non scioperavano per accorciare il chilometraggio di una tappa nel giorno di pioggia. Leggo di delusione per l’avvento di corridorini e corridorucci che non avrebbero personalità, che vincono con comportamenti normali, regolari, logici e non epici, e non hanno molta voglia di sfidare gli elementi atmosferici. E mi vie­ne un sospetto: che tanto ciclismo epico di una volta contenesse una buona dose di  bluff, dovuto al­la ne­cessità di enfatizzare il materiale umano scarso e disponibile. Che il ciclismo eroico fosse un “travestimento” per abbellire i po­veracci, che fra l’altro dovevano essere di umili origini (ideali in assoluto quelle contadine), di aspetto proletario, di modi plebei eccetera eccetera…

Si enfatizzavano allora i corridori scorfani: la pulce dei Pi­­renei, il “testa di vetro” del­la Bretagna, chez nous lo scopino di Monsummano, il pastorello di Pa­vullo. Fausto Coppi era brut­tino giù di sella, aveva un to­race da uc­cello, e per questo era scorfano divino. Il ciclista normale doveva essere piccolo o almeno non alto, sgraziato, poco muscolato, non atleta classico, diciamo ellenico, meglio asceta. Arrivò un certo Eddy Merckx, alto e forte di muscoli, e sentii Gian­ni Brera (che stimai anzi adorai in assoluto, non nel relativo di certe sue boutades provocatorie) sentenziare che mai avrebbe vinto una grande corsa a tappe perché fiammingo e mangiatore di polenta. E poi il bel­ga era troppo alto: come se non esistessero i rapporti per le salite e non fosse possibile trasferire si qualsiasi terreno la forza delle gam­be sui pedali… C’era tut­to un sport “altro” che nel do­poguerra si sforzava di celebrare atleti belli, forti, non più affamati e finalmente tutti sani, e però nel ciclismo si celebrava an­cora il fa­chi­rismo, l’ascesi, la po­ver­tà fisica “ambientata “ nell’umiltà mo­rale.
Io ero arrivato al giornalismo sportivo dal nuoto agonistico e amavo l’atletica, ogni tanto mi permettevo sì di scrivere che forse si sbagliava tut­to, penso che ero divertente, assurdo ma divertente, per questo venivo tollerato.

Il ciclismo era lo sport glorioso del villaggio italio-franco-belga, con visitazioni saltuarie svizzere, olandesi e spagnole. Ba­sta­va ed avanzava per noi, per i lettori dì allora voglio dire. Inglesi e tedeschi corridori erano animali curiosi, il resto del mondo non esisteva. Adesso si registrano e in­tanto si pa­tiscono gli avventi nelle alte classifiche di corridori davvero di tutto il mondo, con grande abbondanza di australiani e di la­ti­noamericani, do­po l’ormai certificata esplosione de­gli statunitensi e dei canadesi, ci so­no giapponesi e cinesi, prossimi vincitori al Giro e al Tour. Gli africani hanno del problemucci che si chiamano fa­me, malattie, guerre e mi­grazioni, per ora. Ma tengono gam­be buo­ne e lo dimostrano nella do­mi­nazione delle corse a piedi su lunghe distanze. Le biciclette costano troppo per loro, ma se potessero usa­­re la forza delle loro gambe per pedalare su di esse…
Scrivevo che il ciclismo avrebbe po­tu­to essere stravolto, e nei valori massimi, se in bicicletta, e per le grandi corse “nostre”, fossero sa­li­ti i forti bipedi di Usa o Urss. Non passavo per pazzo solo perché pochi mi filavano, non facevo quasi rumore. Come quando ascrivevo il doping alla scienza, e esortavo a sfruttare certe scoperte anziché demonizzarle (poi arrivò Armstrong e un decennio e mezzo di suo uso di prodotti sleali, ma forse da usare per curare persone malate, deboli).
Adesso possiedo distacco anagrafico e non solo per meglio vedere dal di fuori cosa accade. Registro i sospiri per un certo ciclismo eroico che non c’è più, per lo Stelvio umiliato. Ma chi ha deciso che i vincitori attuali dello Stelvio non sono grandi atleti e quindi non hanno anche da essere ritenuti grandi ciclisti? Hanno dei pullman riscaldati che li attendono dopo la tappa, sai che colpa. Una vol­­ta si esaltavano le trasferte in ter­za classe e sui sedili di legno, sai che bello. Ma perché quelli dei corridori torturati in corsa e non solo dovrebbero essere ritenuti tempi migliori? Migliori per chi? Per chi leggeva di queste torture e si compiaceva del proprio vivere comodo o comunque meno disagiato? Per i giornalisti che in tanti descrivevano le sofferenze altrui con una esondazione sentimentale pari almeno alla siccità sintattica e grammaticale, e senza quasi mai vedere i corridori in azione? Tempi comodi per i fortunati, ecco, con proposta di attori vicini di ca­setta, passeggeri di strada nei nostri paesucoli, eroi e fachiri da spupazzare anziché da studiare casomai aiutare con qualcosa di più di un batter di mani…

Ricordo un manager amico mio che per i suoi corridori sce­glieva i migliori alberghi e veniva criticato perché, dicevano, li rammolliva. Agli arrivi azionava lo spray alla lavanda per profumarli al­meno un poco acciocché non fossero sempre chiamati puzza piedi, era tanto che non lo dicessero gay. Non era amato nell’ambiente, eppure lui amava e conosceva il ciclismo  e pri­ma Coppi poi Merckx, Zilioli e poi  Balmamion si affidarono a lui. Se ne è andato troppo presto, cuore eccetera, alla fine di una tappa del Tour toccò a me annunciare a Eddy e a Italo, “figli” suoi, che era morto. C’è qualcuno che ricorda il suo nome?

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