Rapporti & Relazioni

PIU' O MENO CICLISMO?

di Gian Paolo Ormezzano

In poco tempo il ciclismo italiano ha perso nell’ordine Gianni Mura, Claudio Fer­retti e Sergio Zavoli, tre grandi leader giornalistici senza eredi alla lo­ro altezza. Poi il ciclismo internazionale ha perso sia pure provvisoriamente (ma non è detto che guariscano al cento per cento) due giovani pedalatori superpromettenti come Fabio Jakobsen olandese e Remco Evenepoel belga, coinvolti in terribili incidenti durante corse importanti, intanto che questo stesso ciclismo ha perso credibilità organizzativa per cosa è ac­ca­duto a quei due al Giro di Po­lo­nia e al Giro di Lombardia. Ha pu­re perso affidabilità per altri incidenti e per nuove voci sul do­ping incontrollabile. Ha pure per­so la prevista organizzazione dei Mondiali in Svizzera, e non è detto che l’avere subito trovato aspiranti sostituti, specie in Italia, sia un bene, considerando che ci vuole tempo, e tanto, per organizzare almeno decentemente  le prove di un giorno più importanti della stagione, e questo al di là del problema che si chiama coronavirus.

Ha pure perso un bel tratto tradizionale della Milano-Sanremo, ma  non è detto che sia stato un male assoluto, vi­sto che la variante via colle di Na­va, con calata sul mare ad Imperia, è piaciuta e ad essa ci si può anche votare dopo avere riscontrato la non devozione alla corsa dei sindaci liguri savonesi pavidi e deludenti.  
Di tutto questo si è parlato giorno per giorno, giorno dopo giorno. Qui abbiamo riassunto per inquadrare al meglio il grosso semplicissimo interrogativo: a virus finito, più o meno ciclismo sulle nostre stra­de, addirittura nelle nostre vi­te? Parliamo di ciclismo praticato cittadinescamente e sanamente per lavoro con spostamenti brevi, turistecologicamente per ricerca di pa­norama nuovo e di salute da ritrovare, anche di ciclismo praticato per ragioni economiche  legati alla grossa inevitabile crisi, ma pure del ciclismo da competizione, da spettacolo, da folle sulle strade.

Sport di strada o di pista (comunque sempre circuito stradale è) come l’automobilismo e il motociclismo si sono privati delle folle, anche per gare mondiali, pensando di poter campare di televisione, di immagini diffuse nel mondo, di classifiche. E pensando giusto, visto che il loro mondo, fatto soprattutto di pubblicità e di sponsorizzazioni, è d’accordo: gare anche algide, no­io­se, ma con la consueta diffusione di immagini scritte, offerte, proposte, messaggi, massaggi per un sempre agile consumismo.
Il ciclismo però ha sponsorizzazioni più affettuose che stentoree, più tifoidee e meno calcolatrici. Vero che qualcuno crede già di vedere in arrivo gli sceicchi con tutte le loro deformazioni di mercato, vero che sofisticazioni e costi della bicicletta sono in ascesa inquietante, ma c’è ancora un semplice e forte senso di possesso di questo sport da parte del bipede tifoso tradizionale, del tenero e forte poveraccio che si sgruma chilometri a piedi per vedere dal posto che ritiene più giusto un passaggio di un attimo: qualcosa di completamente di­verso dal senso di possesso che alberga in un tifoso della Formula 1 o del MotoGP.

Già questa diversità dovrebbe essere studiata, non tanto per ovviare ad essa sul momento, con interventi plateali magari del genere spettacolare (pedalate in posti strani del mondo, di fronte alla clausura di altri sport sempre negli stessi re­cinti, sugli stessi nastri di asfalto), quanto per costruire affetti di nuo­vo tipo o rassodare affetti vecchi. C’è qualcosa di utile nella pandemia, al di là delle litanie pseudoconsolatrici sul come saremo più forti “dopo”, sul come abbiamo splendide opportunità di visitarci dentro senza l’ingombro, l’assillo del solito mondo con i suoi soliti comandamenti comportamentali, con le sue usanze fisse e pazienza se banali o noiose o ipocrite. C’è qualcosa di utile ed è proprio la possibile individuazione dei lati migliori di un amore, in condizioni ottimali di esame, di valutazione, e da questa individuazione la migliore formulazione dei comportamenti a venire. Questo riguarda due amanti nella ritrovata intimità, può riguardare milioni di tifosi nella epifania di un nuovo tipo di amore.

Ci vorrebbero i Mura del Tour de France, i Ferretti del Giro d’Italia, gli Zavoli del Processo alla Tappa più che della presidenza Rai per prendere questa lava prodotta dall’eruzione della pandemia, questo nuovo tipo di materiale umano nel senso che è cosa degli uomini, e plasmarlo, tramutarlo pubblicisticamente, me­diaticamente in amore simile come forza e modi a quello per il vecchio ciclismo. Il fatto che tipi come quei tre non ci siano più deve spingere ognuno di noi ciclofili, nel suo piccolo, a mettercela tutta perché, alla fine della pandemia, con quel po’ po’ di mondo nuovo che vorrà imporre le sue re­gole alle genti come alle astronavi come alle biciclette, ci si ritrovi su una strada, eguali ai noi stessi di prima (non è il caso di sforzarci per essere addirittura migliori), a veder passare quelli che pedalano, a farci lustralmente bagnare cioè più che mai lavare dal loro sudore. 

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