Scripta manent
Bartali, Ochoa e la mano del cuore
di Gian Paolo Porreca

Vorremmo che arrivasse Bartali, scomparso un anno fa giusto di questi tempi, a dare la sua lettura religiosa ed umana di questa storia. Sulla storia tragica, e per un lato infine squisitamente affacciata al futuro, dei gemelli Ochoa Palacios, i due ciclisti iberici della Kelme. Vorremmo che arrivasse Bartali, con il suo integerrimo animo di credente, a scuoterci dai dubbi e dalle perplessità, dalle reticenze e dalle presunzioni della scienza medica. Gino Bartali, a contemplare il calvario che sembra alfine guadagnare il sereno di Javier Ochoa Palacios, il corridore basco investito con il gemello Ricardo, morto invece sul colpo, il 15 febbraio scorso, a Malaga. «Letteralmente travolti da un auto di grossa cilindrata, sulla statale A 357, nei pressi di Cartama, mentre si allenavano, alle ore 16», come riferiva l’agenzia. Travolti da un’auto di grossa cilindrata impazzita guidata, per una drammatica ironia della sorte, dal direttore del Dipartimento dello Sport dell’Università di Malaga, vittima di un malore. Ricardo, il meno noto dei due, al rientro nel professionismo, dopo un grigio apprendistato nella Once ed un ritorno nelle fila dei dilettanti, era deceduto sul colpo, l’abbiamo detto.

Ma le condizioni di Javier, la speranza dichiarata del ciclismo spagnolo, vincitore l’anno scorso al Tour della tappa pirenaica di Lourdes Hautacam, non consentivano soverchie speranze ai soccorritori. Uno stato di coma profondo da trauma cranico, nella Rianimazione dell’ospedale Carlos Haya di Malaga, per giorni e giorni: e non vi tediamo, ma sarebbe peraltro costruttivo il farlo, tra danni vertebrali, insufficienza respiratoria acuta, frattura di tutte le ossa degli arti inferiori, relativamente al tragico corredo di lesioni del quadro clinico del ragazzo.

Bene, ci fermiamo qui. Di fronte alle settimane successive ed alle lunghe vigilie, alle veglie della fidanzata e della madre di Javier, le sue donne. Di fronte al pessimismo razionale dei medici e alla loro peraltro ammirevole gestione del paziente. Di fronte ad un capezzale, riferivano rispettosi testimoni, nobilitato come un ex-voto dalle effigi della Madonna di Fatima e della Madonna di Lourdes. Mai disperanti, come Bartali in salita, come quel Bartali che scavalcava di fatica il dopoguerra, le Due Donne di Javier. Bene, ci fermiamo un’altra volta qui. Da medici incantati della bravura dei propri colleghi, nel sapere che Javier ha lasciato prima la Rianimazione del Carlos Haya di Malaga per essere trasferito, in relazione ad un graduale miglioramento, nell’Unità di Terapia Intensiva dell’Ospedale di Bilbao, più vicino al suo paese natale, Beranco. E che a fine aprile, ancora, è uscito dal coma ed ha cominciato a respirare da solo e ad alimentarsi spontaneamente, fino a poter essere spostato in un tranquillo reparto di Ortopedia. E che oggi, alfine, è a Mondragon, - FUORI PERICOLO - per proseguire nella sua riabilitazione. Di uomo, di giovane uomo. Non necessariamente di alteta.

Scusateci, cari lettori, se ci concediamo una fuga di lato, su un mensile coraggioso di ciclismo che peraltro con tanto pudore ha saputo raccontare del dramma di Simone, ma di fronte all’ottica semplicistica che alberga nella trascrizione della medicina attuale sui mass-media, di fronte al concetto imperante di Centri di Rianimazione sollecitati più che al recupero del caso disperato alla notarile ratifica della “morte cerebrale” per incentivare i trapianti d’organo, il piccolo enorme miracolo di uno Javier Ochoa che torna a vivere, forse a camminare è una lezione di sconfinata professionalità e di profonda fede!

Certo Bartali, che come Coppi, aveva visto morire suo fratello, ne avrebbe saputo derivare una testimonianza morale, ricavare una lezione di vita e di sport. Uno sport di sacrificio e riscatto, come il nostro. Uno sport destinato alla strada, come il ciclismo sensibile alle foglie. Una missione di solitudine, come il lavoro del medico, per analogia splendida.

Ci avrebbe detto Bartali, qualora gli avessimo chiesto di questa storia un’illuminazione, quello che ci disse una sera di estate, una calda sera di luglio ’93, nel gazebo del Grand Hotel di Cervia, nella cerimonia di premiazione per i finalisti del Premio Bancarella Sport di quell’anno. Noi che gli tendevamo la mano, emozionati, il primo incontro con Bartali; noi che gli tendevamo la mano destra ovviamente. E lui che ci guardava fisso e ci tendeva la sinistra invece! «A te, che sei un medico e che di questi tempi strani hai ancora il coraggio e la passione di scrivere di ciclismo, ti do invece la mano sinistra. Sai, è quella riservata a pochi, è quella del cuore». Quella del cuore...
La mano di un ciclista che stringe un manubrio in salita. La mano di un medico che un giorno, non solo per lui benedetto, ha stretto a sé le mani delle Due Donne di Javier Ochoa per dir loro che era tornato a vivere. La mano di un cuore divino.

Gian Paolo Porreca, napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare, editorialista de “Il Mattino”
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