Forse arriviamo per primi, forse altri ci hanno pensato e persino hanno già cominciato a celebrare. Ma fra due anni cominciano le commemorazioni di Fausto Coppi per i cinquant’anni dalla morte. È vero che lui è deceduto nel 1960, ma siccome si è trattato del 2 gennaio le celebrazioni devono riguardare il 2009. Non è possibile pensare a tutto il 2010 (se non in una chiave di cui diciamo più avanti), ormai la corsa alle date che contano porta tutti ad avventarsi in tempo su quelle che non solo si presentano, ma annunciano di ripresentarsi. Il 3 gennaio del 2010 di Fausto Coppi, in termini almeno di scadenza a cifra tonda di ricorrenza, non si parlerà più. Casomai quello sarà l’anno dei due lustri dalla fine di quel pezzo anche di Coppi (che a sua volta era un pezzo anche di lui) che si chiama Gino Bartali e che se ne è andato nel 2000.
Il terrore massimo è che la televisione si impadronisca, con i suoi potenti mezzi, dell’«idea Coppi» e se la pasticci, se la spupazzi, se la pomici volgarmente, come sa fare e purtroppo quasi sempre fa, cioè con gossip, imprecisione, approssimazione, tutte cose che per noi che amiamo il ciclismo e che amammo Coppi significano molto semplicemente empietà. Il mondo del ciclismo dovrebbe riuscire ad imporre una specie di copyright sul personaggio. Pensiamo che la federazione stia almeno provvedendo a partire per tempo, onde non dover subire altre iniziative magari, come suol dirsi, non consone, non provvide. Ma ci piacerebbe che riuscisse davvero a porre qualche aut-aut, qualche paletto, se non altro per evitare il troppo scempio. E per mettere in rilievo come pochi sport, e in pochi posti del mondo, si permettano un mito così forte, così “vivo”, così permeato di situazioni esterne, così variegato e intanto così concentrato, così discusso e intanto così amato. Perché da oltre cinquant’anni Fausto Coppi rappresenta fra l’altro l’Italia laica, l’Italia dell’amore non schematicamente matrimoniale, l’Italia contadina a contatto con l’Italia borghese (e lui a contatto con Giulia Occhini, che per lui andò anche in prigione). Poi rappresenta per tanta gente, che fra l’altro ha fatto della Castellania che diede i natali al Campionissimo un posto di costante richiamo, di periodico puntuale pellegrinaggio, il mito sportivo nella sua essenza ed anche nella sua massima dilatazione. Castellania - anzi per rispettare gli accenti Castellanìa - che è un paese assolutamente non bello, piccolo e scollinante con poche case, problemi di parcheggio anche se sembra di trovarsi dentro ad una landa infinita, un panorama intimistico, che sussurra e non grida, che provoca pensieri raccolti più sensazioni di meraviglia.
Coppi è attualissimo in tanti sensi, e basti pensare ai Pacs e a come la sua vicenda con la Dama Bianca combacia con tante situazioni di oggi. Coppi ha anticipato sulla sua pelle tanta Italia laica che adesso è facile (o no?) da frequentare, da spartire, comunque da capire. Coppi merita studi di ogni tipo, dibattiti allargatissimi, riletture speciali del personaggio e più ancora dell’Italia che li circondava, lo amava, lo applaudiva: e che intanto riusciva anche ad amare, riverire, applaudire Bartali il pio, suo rivale ma anche suo partner nel tenere avvinta tanta gente e nel lavoro di ricostruzione del paese, pedalando cioè lavorando (in piemontese, il dialetto di Coppi, forse anche in altri dialetti i due verbi spesso dicono la stessa cosa, indicano il faticare, il darsi da fare; mentre ci sono posti d’Italia dove pedalare vuol dire andare via, scomparire, togliersi di mezzo, specialmente se il verbo viene coniugato all’imperativo).
Questo Coppi storicamente validissimo, come e più di quello delle vittorie per la statistica, chissà come e quanto sopravviverà a celebrazioni inquisitorie, a rievocazioni pruriginose, al gossip sul suo secondo amore. I suoi figli - Marina avuta da Bruna, la moglie, e Faustino avuto da Giulia, l’«altra» - sono esemplari per riserbo personale e intanto culto amoroso del padre, si frequentano civilmente quando è il caso, sembrano pronti a reggere a qualsiasi tsunami di gossip scatenato con la scusa della rievocazione, ma la stampa rosa e gialla è capace di tutto, e contro tutti. Marina fa vino e Faustino fa case, entrambi hanno patito vicissitudini personali, intime, anche terribili (specialmente Marina, e sono cose recenti) usando il silenzio e la dignità per vivere il dolore senza intromissioni assurde e gaglioffe o ipocrite. Sono due belle persone che non hanno né voglia né bisogno di essere aggredite e scuoiate come personaggi. Il ciclismo potrebbe avere i due tutti suoi, per commemorazioni sane e sante, e intanto tutelarli.
Per ora diamo una sorta di allarme. Sarebbe cosa bruttissima se il debito che un po’ tutti abbiam con Coppi venisse sciaguratamente ampliato nella circostanza dei cinquant’anni, anzi del mezzo secolo (non è la stessa cosa) dalla sua scomparsa.
C’è comunque una sollecitazione sanamente e chiaramente sportiva che aiuta. Già detto che l’anno giusto deve essere il 2009 e non il 2010, ricordiamo che nel 2009 il Giro d’Italia compie cent’anni: unirlo con le celebrazioni per Coppi è in fondo un atto automatico. E il collegamento può aiutare eccome, sul piano appunto dello sport e della sociologia del Bel Paese. L’Italia del Giro d’Italia e quella di Fausto Coppi possono felicemente sovrapporsi. L’anno dopo, il 2010, se proprio si vuole, si insiste con i cinquant’anni ufficiali dalla morte del ciclista e i settanta da quel 1940 in cui si rivelò, partendo da gregario di Bartali, con la vittoria al Giro (la chiave di cui abbiamo detto all’inizio). C’è insomma tanto da fare, e lo si deve fare bene. Poi, nel 2011, si celebreranno i centocinquant’anni dell’unità d’Italia, e si dovrà trovare il modo per far capire alla gente, se non sarà rimbambita dalle incalzanti e dilaganti cretinate televisive, che a questa unità il popolo dei pedalatori e dei credenti nella religione della bicicletta ha dato una grande mano e alcune grandissime gambe.
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