Riproponiamo una riflessione che abbiamo già messo per iscritto, però in troppo poche righe, e che secondo chi scrive queste righe non è mai stata valutata dai ciclofili quanto essa merita. Quella cioè per cui gli appassionati di ciclismo tifano per il ciclismo e non per i ciclisti. Passo alla prima persona singolare per dire che, da tifoso assoluto del Torino calcio, accetterei persino che il grande tifo granata di Fausto Coppi fosse stato dettato dal suo amore per lo sport, e quindi per chi lo esaltava con un calcio sublime come quello del Grande Torino, che non specificamente per la squadra di Valentino Mazzola.
Il Mondiale vinto da Paolo Bettini è stato l’ennesima occasione per evidenziare e rafforzare questa constatazione / convinzione. Hanno tifato durante la volata ed applaudito dopo la vittoria anche i simpatizzanti di Petacchi, i nostalgici spinti di Pantani, i recenti e (speriamo) provvisori “orfani” di Basso. Pensiamo davvero che nessuno degli italiani che amano il ciclismo ed anche di quelli che riescono ancora ad amare tutto lo sport non abbiano pedalato con Bettini in quegli ultimi difficilissimi metri. E alla fine la festa è stata di tutti. Come mai nel nostro calcio potrà accadere, neanche per un nostro titolo mondiale, che impedisce, per esempio, il giubilo a coloro i quali temono che il trionfo massimo impedisca di guardare del nostro calcio le brutture, gli scandali, gli accomodamenti, le ingiustizie, la protervia (che casomai da un successo di quella portata viene rafforzata, insieme con il senso di immunità/impunità).
Al limite, possono esistere persino le paure di chi, appassionato di uno sport, teme che i successi di esso nuocciano allo sport “suo”: un esempio pratico: siamo sicuri che i tifosi del basket, o comunque di squadre di basket, non erano mica stati troppo contenti quando la pallavolo azzurra diventava la più forte del pianeta e vinceva campionati mondiali ed europei a ripetizione: perché il bacino di utenza di questi sport di sala, di questi sport indoor, non è vasto, e anche uno spettatore perduto è un salasso.
Questo senza scadere al becerume tifosistico, che pure esiste: nessun interista può essere contento della provvida regia del milanista Pirlo per la Nazionale, nessun granata può godere per la folta presenza di bianconeri nella vittoriosa selezione azzurra. Nessun interista sopporta Del Piero, e men che mai Cannavaro che in nerazzurro aveva deluso. E se Gilardino perde il posto nel team di Donadoni, sono contenti gli juventini offesi perché lui preferì il Milan alla loro squadra. E via invidiando, via offendendosi, via gufando.
Nel ciclismo tutti hanno tifato per il ciclismo anche quando l’Italia era divisa anzi dicotomizzata fra Coppi e Bartali. Naturalmente i tifosi di Gino mica si spremevano per Fausto, e viceversa. Ma non c’è mai stato quel tifo “contro”che è invece tipico del calcio, persino nella finalissima di Champions League, quando neppure si riesce a far finta di credere che quel club (spesso farcito di stranieri: e questo è un alibi che senz’altro vale) ci rappresenti alla fin fine tutti sulla grande ribalta internazionale.
Persino il tifo per la Ferrari non è di tutti gli italiani, bisogna pure avere il coraggio di scriverlo. E d’altronde la nostra esterofilia è provata anche dal come e dal quanto stanno bene sul nostro mercato interno le auto straniere. E per quel che riguarda Schumacher, se non imparava uno straccio almeno di italiano per il suo fine-carriera, era “chez nous” solennizzato come massimo antipatico, oltre che come immenso pilota.
In linea di massima i ciclofili che assistono al passaggio della corsa applaudono tutti. Al Tour de France del 1950 la squadra italiana, guidata da Alfredo Binda, venne ritirata per le intemperanze dei tifosi francesi contro i nostri pedalatori che i cronisti transalpini definivano succhiaruote. Magni, in maglia gialla, e Bartali lasciarono una corsa che stavano dominando: vinse, ringraziandoli, Kubler, primo svizzero in maglia gialla a Parigi. Ma c’erano le ferite ancora fresche della guerra, c’era una prima operazione di conquista dei mercati francesi da parte dei nostri industriali della bicicletta (il Tour era stato vinto nel 1948 da Bartali e nel 1949 da Coppi, un’egemonia italiana), e poi magari certi fatti vennero dilatati: Bartali minacciato da un tizio che agitava un coltello oppure, come dissero in Svizzera gli amici di Kubler, un tifoso francese che aveva salutato ironicamente Bartali usando però il coltello per tagliare un salame? In ogni caso, Bartalì e Copì sono stati gli idoli di Parigi, alla fine dei loro Tour vittoriosi.
Davvero il ciclismo è tifato, in quanto sport, senza bisogno di alimentare lo stesso tifo con l’avversione per l’altro sport, in campione per l’altro campione. Ultimamente poi il ciclismo ha assunto una componente “verde” di ecologia dell’uomo, e neanche l’uso masochistico del doping e la colpevolizzazione chimica quasi esclusiva ammollata al ciclismo da altri sport in cerca di parafulmine hanno piallato troppo questa componente umanistica. I tifosi del ciclismo non si azzuffano sulle grandi salite, dove pure sono in tantissimi, e neanche agli arrivi. Ai due lati della strada del Giro l’italiano convive con il suo connazionale che tifa diverso, e anche con lo straniero che tifa diverso. Idem sulla strada del Tour: dove magari si trovano insieme a sbandierare per un corridore spagnolo il tifoso basco con lo stendardo dell’Eta e quello castigliano con il rigoroso giallorosso “de toda Espana”.
Potrebbe essere, questa, una costante strepitosa lezione al calcio, nonché la chiave per ottenere un trattamento di preferenza anche in sede governativa. Il ciclismo è rimasto uno dei pochissimi sport dove la coltivazione dei buoni sentimenti resiste, ed è addirittura incoraggiata. Persino ai Mondiali di scherma si vede ormai un tifo paracalcistico. Ma i ciclofili hanno paura di farsi sentire per quello che sono: come se fossero eterni contadini presi da timidezza quando devono andare in quella città in cui i ricchi si fanno belli dei loro week-end in campagna, alla contadina.
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