Una volta le pause, le latitanze dell’attività o quanto meno della sua rappresentazione, servivano al ciclismo per creare quello che Bruno Raschi chiamava “il mistero dell’attesa”, riferendosi sia all’attesa lì sulla strada, tipo “chi si presenterà per primo lì in fondo?”, poi vanificata dalla overdose di informazioni radiotelevisive, sia all’attesa stagionale, attesa di cosa sarebbe accaduto dopo l’inverno in cui il corridore si riempiva di grasso e si svuotava di promesse. Adesso gli stop, le soste, i vuoti sono una dannazione. Latitare anche per poco dal teatro dello sport significa rischiare l’oblio, e comunque dover penare per ritrovare spazio e battute.
Bisognerebbe davvero inventare qualcosa per l’inverno. Non il ciclocross, c’è già, e l’ultimo professionista importante a praticarlo nei mesi freddi è stato, senza speciale successo di attenzioni, Claudio Chiappucci, personaggio ormai quasi preistorico. Non quelle gare finte in posti caldi, nessuno crede ad esse, si sa che sono marchette del corridore celebre perché gli offrano viaggio e soggiorno. Non l’attività su pista, fuori ormai dai gusti popolari.
Ci vorrebbe qualcosa di davvero ciclistico, e ciclistico del vero ciclismo su strada. Magari ci vorrebbero delle corse disputate alla faccia dell’inclemenza meteorologica, anzi disputate proprio per sfidare ed esorcizzare questa inclemenza. Perché il ciclismo deve capire e capirsi: la sua sopravvivenza nell’immondo show-business attuale (sopravvivenza con dignità, ché altrimenti basterebbe organizzare corse di pornoattrici o esibizioni miste di sesso e “spin” per avere successo) è legata a certi criteri positivi di stima nei suoi riguardi, criteri che tengono conto del fatto che per essere ciclisti veri bisogna saper affrontare una fatica boia, bisogna proporre al mondo attuale esempi di fachirismo, e di fachirismo sano, non quello dei pagliacci giapponesi che si mettono in una botte piena di topi famelici.
Pensate ad una proposta invernale o tardautunnale di maratona ciclistica da Milano a Roma, con previsione di Appennini imbiancati da valicare: e questo mentre il calcio offre le sue invereconde puntuali scene di divismo nel suo solito teatro pornografico della domenica e del sabato e di sempre.
La gente, meno imbecille di quel che certuni pensano pensavano, sembra non poterne più di un certo calcio, il corpaccio osceno è ferito, bisogna (bisognerebbe) approfittarne. Proponendo uno sport “altro”, che poi è soltanto il ciclismo di una volta. La stessa televisione sembra disposta, pur nel gioco sporco della concorrenza che punta al peggio del peggio del peggio per prendersi l’audience, a lasciare perdere o a limitare il gossip del calcio: tanto più che nessuno osa pensare seriamente che vinceremo il titolo mondiale del 2006 in Germania. Ci vorrebbero idee. Noi abbiamo per ora l’idea che si debba studiare qualcosa. Chi ha qualcosa di più?
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Dal 10 al 26 febbraio si disputeranno a Torino e nelle sue valli i Giochi olimpici invernali, Lo stadio per la cerimonia di apertura e per quella di chiusura sarà il Comunale rimesso a nuovo e poi dato al calcio, pare più al Torino che alla Juventus che ha avuto il Delle Alpi e deve ristrutturarselo. Ma non è questo il punto.
Il punto è sapere se il ciclismo riuscirà in qualche modo a farsi vivo nella grandissima manifestazione, che pure si svolge anche sulle montagne sublimate dall’ultimo Giro d’Italia: si pensi al Colle delle Finestre.
C’è nel programma più nobile dei Giochi invernali ed anche nella nostra fresca ma già grande tradizione uno sport delle Olimpiadi bianche assai vicino al ciclismo, ed è lo sci di fondo.
Il primo italiano medaglia d’oro in questa specialità eminentemente nordica, cioè scandinava, e poi anche sovietica, è stato un ex ciclista dilettante della Val di Fiemme, Franco Nones vincitore a sorpresa, a sorpresissima della gara sui 30 chilometri ai Giochi di Grenoble 1968.
Per anni il gloriosissimo Nones ha seguito una-due tappe del Giro d’Italia, quelle nel suo Trentino, sull’auto al seguito occupata da chi scrive queste righe ed era, ed è amico suo.
Nell’ultima edizione dei Giochi olimpici invernali, quella di Salt Lake City 2002, un equipaggio di bob azzurro era formato dalla grande specialista Gerda Weissensteiner e dalla ex ciclista Antonella Bellutti, grandissima donna della pista olimpica. Per quasi tutti i fondisti il ciclismo è sport propedeutico, cioè utile per predisporre alla pratica specialistica.
Bisogna combinare qualcosa. Se la Federazione dell’amico Di Rocco è interessata, sono pronto a collaborare. Nessun conflitto di interessi, non lavoro per l’organizzazione dei Giochi di Torino, e mi piace “pedalare” con il ciclismo, per il ciclismo.
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Esin d’ora un appello: che nessun ciclista importante si presti, quando sarà venuto il tempo della preparazione degli azzurri del calcio per il Mondiale, ad elemosinare comparsate televisive per dire ai pallonari buona fortuna, per banalmente invitarli a correre in gruppo, a non sbagliare la volata, ad attaccare nella pianura del campo da football.
Uno dei momenti professionalmente più tristi passati da chi scrive queste righe è stato quello di una premiazione in cui si dava a Michel Platini, il calciatore juventino supercannoniere, il premio speciale di una bicicletta: e gliela dava il belga Freddy Maertens, due volte campione del mondo su strada (Ostuni ’76 e Praga ’81) ma ormai chiaramente, tristemente al tramonto, senza soldi né salute. Platini faceva finta di interessarsi, con signorilità peraltro, alle vicende di Maertens il quale non sapeva cosa biascicare. Una faccenda penosetta, davvero. Ci vuole niente per dare vittima ad uno a tanti altri simili squallidi incontri.
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