Esiste ancora un lessico del ciclismo usato nel parlare comune? Per esempio, quando diciamo “gregario” pensiamo genericamente ad un subordinato, o specificamente ad uno che in bicicletta porta borracce al capitano o lo spinge su una salita? Il mito dell’uomo solo ha ancora una valenza più sportiva che filosofica?
Parlare di ciò può essere un puro divertissement, può essere un motivo di riflessione particolare su un declino, un cambiamento. È vero che ultimamente il lessico ciclistico si è arricchito di alcune nuove definizioni, su tutte, pensiamo, quella di “trenino”, per dire dei pedalatori della stessa squadra che, uno dietro all’altro, tengono la testa del gruppo in prossimità del traguardo, impediscono con la loro alta velocità fughe e anche rimonte sino alle prime posizioni, e propiziano lo scatto del velocista quando, diventato primo vagoncino del trenino dietro all’ultimo dei compagni, la locomotiva anzi la locomotivina, toccherà a lui scattare per la vittoria. Ma il fatto è che non ci pare che la parola “trenino” abbia vita fuori dal ciclismo: e neanche tra i fruitori delle ferrovie, che casomai dicono trenaccio del loro treno che diventa piccolo perché inutile, nel senso che sta in ritardo, sta sotto sciopero, sta sotto guasto.
Pensiamo che adesso i forzati della strada siano soprattutto quei prigionieri che, catene ai piedi, si vedono ancora a lavorare su certe arterie statunitensi di provincia. Che quando uno pensa a scalatori di una banca, di un’industria, di un posto di potere, non pensa anche ad agili o possenti arrampicatori in bicicletta, pensa soltanto a signori su auto blu e con sempre troppi telefonini in funzione. Abbiamo sentito dire passista di uno che fa il ritmo in una gara di atletica, mentre il falco non sempre è un Savoldelli che si butta giù dalle discese, spesso è uno che si butta sulle occasioni, che è rapace anche quando non dovrebbe esserlo.
Pensiamo a Sgarbozza quando parla in televisione, peraltro simpaticissimamente, usando il lessico convenzionale del ciclismo dei suoi tempi: quanti lo capiscono, quanti che non siano ciclofili o addirittura ciclomani?
Personalmente ho un’esperienza particolare. Tanti anni fa, ventidue per la precisione, la Garzanti mi commissionò un libro ciclistico e intanto romanzesco per le sue edizioni scolastiche (stesso compito venne affidato a Giovanni Arpino, per lui un libro sulla vita contadina, e la compagnia mi fece grande onore). Si trattava di offrire ai ragazzi un romanzetto dove i termini tipici dello sport della bicicletta venivano spiegati a pie’ di pagina, insieme con altri termini non consueti per un ragazzo di scuola media, target (ma allora non si diceva così) della pubblicazione. Scrissi “Giro d’Italia con delitto”, un giallo che considero valido, che mi piace ancora leggere. Con colpo di scena finale, all’ultima riga, se si vuole all’ultima parola. Non fu un successo, mai saprò bene il perché, comunque mi parve e mi pare operetta dignitosa. Ma lasciamo perdere, guardiamo invece le note a pie’ di pagina, e troviamo circuito, ingaggi, sponsorizzato, sprint, mozzo, cronoprologo… Parole che sono ormai sfuggite al ciclismo, nel senso che sono di tutti, o quanto meno di tutto lo sport, oppure che hanno uso ridotto. L’unico termine ad avere una valenza grossa è circuito: ma adesso lo si usa soprattutto con l’accento sulla i, circuìto nel senso di raggirato.
Con i miei nipotini, tanti ormai ma tutti ancora attenti a me, mi scopro sovente intento a usare termini che io ritengo comunissimi e che loro (due fanno già la prima media) non sanno assolutamente capire. Ci sono anche termini ciclistici: ho detto velodromo e nessuno dei sei (o cinque, Camilla ha pochi mesi) ha capito di cosa stessi parlando.
Affido il tema a gente esperta nello scrivere di filologia, di evoluzione del linguaggio, di creazione e uso dei neologismi, di adattamento dei classicismi. Io mi fermo qui, aspetto altri, sto in surplace.
Ma c’è ancora chi sa cosa vuol dire surplace?
fffff
Ho smesso di seguire le corse da una decina d’anni, a parte il Giro d’Italia del 1999, straordinaria occasionalissima esperienza per la Rai, a fare cabaret nel Processo alla tappa con Claudio Ferretti e Gianni Ippoliti (ma si trattò di esperienza isolata nell’intera stagione), eppure ricevo continuamente, costantemente inviti a presentazioni di squadre e di corse, inviti a corse, inviti a dibattiti sulle corse. Ogni tanto mi viene in mente che, se nessuno mi scrivesse niente, ma tutti quelli che avessero in animo di scrivermi mi facessero avere in qualche modo non costoso i soldi del francobollo, o il francobollo stesso, che risparmiano non scrivendomi, alla fine dell’anno potrei permettermi una bicicletta da corsa di quelle che ormai costano più di un’auto (Fiorenzo Magni una volta mi disse: “Smesso di pedalare ho fatto il commerciante d’auto, il concessionario anzi, ogni tanto incentivavo le vendite dando in regalo una bici a chi comprava un’auto, adesso quasi quasi si deve dare un’auto a chi compra una certa bici”).
Mi rendo conto che bestemmio un pochettino, ma davvero ricevo troppi inviti per la mia disponibilità di povero vecchietto, e sono davvero dispiaciuto non solo di non poterli accettare, ma spesso di non trovare neanche tempo e modo per rispondere con un no gentile e motivato.
Uso biecamente questo giornale per scusarmi di quella che è pur sempre una mia forma di maleducazione. E per favore, non mandatemi francobolli.
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