E’possibile sognare, entro tempi umanamente comprensibili, intelleggibili, frequentabili, una rivoluzione dei valori attuali dello sport, e cioè il calcio che decade, il rugby che prende il suo posto, l’automobilismo che stanca ed irrita e sparisce, il ciclismo che ritrova i suoi fasti di popolo, il basket che torna a chiamarsi pallacanestro per non dire palla al cesto e ghettizza quelli alti più di due metri in zone tutte loro di sport circense? È possibile che le città si offrano in festa alle maratone, e che nelle scuole il saper leggere e anche nuotare torni a costituire, come già per i latini, titolo di merito?
La (nostra) risposta è no, ma ci pare doveroso tentare di spiegarla: ovviamente in chiave ciclistica. La premessa è che quanto è avvenuto non sia mai stato dovuto ad una casualità, ma sempre ad un calcolo. Lo sport agli inizi del Novecento germinò finalmente anche in Italia in maniera naturale, crebbe da semi portati da qualche vento: si pensi al calcio arrivato da noi grazie ai commercianti marittimi di Genova ed ai tessili svizzeri di Torino. Ma da quando divenne fenomeno importante, fu sempre regolato nel suo divenire ed anche nel suo innovarsi e rinnovarsi. Più che a motivi politici pensiamo a motivi commerciali, economici, ad essi comunque legati in qualche modo diretto o indiretto: il ciclismo esplose perché la bicicletta era strumento di lavoro, era attrezzo indispensabile. Conveniva al governo, ai costruttori di biciclette e agli inventori di corse ciclistiche che legavano le città e davano finalmente una certa idea coesa dell’Italia fresca di conio aiutare, propagandare il cavallo d’acciaio. Poi il motorismo, più veloce, più interessante come sviluppi industriali ed anche commerciali (trasporti di tonnellate di merci, non di corpi umani uno o al massimo due per velocipede), si fece preferire al ciclismo. Sino ad avere l’input, gli strumenti anche legali per soffocarlo: al ciclismo fu lasciata la cultura del romanticismo, e di un po’ di fitness.
Andiamo avanti e indietro nella storia per spanne, lo facciamo a puro titolo di semplificazione e di esemplificazione. L’avvento della pubblicità nello sport e grazie allo sport, dunque degli sponsor, ha fatto sì (e siamo a ieri l’altro, a ieri) che ogni lancio, ogni diffusione abbia sempre corrisposto ad un piano: lo sci è turismo, è uso di molti tipi di abito, di molti tipi di attrezzo, ed intanto è terreno di buon divismo caldo, con l’atleta celebre che potrebbe essere tuo vicino di posto sulla seggiovia: e così il campione reclamizza anche prodotti del tuo consumo abituale, come birra e spaghetti. Dunque tanto sci offerto e in pratica imposto, secondo quei calcoli di presa sulla massa che raramente sono sbagliati.
A mano a mano che si sono imposti tanti sport, ripescati o inventati, la massa si è fatta sempre più malleabile e gli sponsor ne hanno sempre più approfittato. Contenti gli spettatori di ricevere tanto sport, e specialmente tanto calcio, a casa, contenti gli sponsor dei loro successi pubblicitari. Un gioco banale e perverso. Con qualche errore, qualche stop, qualche fallimento in azioni di lancio di uno sport e dello spot annesso. Ma nell’insieme con una forte linearità.
Il ciclismo che propone una epica umile, difficile, di imitazione quasi impossibile, è stato perciò progressivamente abbandonato. Impegna sin troppo strade, giorni, settimane, uomini, mezzi. È così pieno di sentimenti ingombranti da rendere difficile il rapporto chiaro “proposta di consumo - consumo”. Il ciclofilo ama il ciclismo troppo più del prodotto che il ciclista gli consiglia. Pubblicitariamente parlando, insomma, il ciclismo è veicolo scomodo. Lo aiutano grossi sponsor convenzionali, che devono comunque spendere soldi per ragioni di bilancio o addirittura istituzionali (e il ciclismo offre tra l’altro comodi trasferimenti di denaro all’estero), o piccoli sponsor innamorati di questo sport. Ha persino, il ciclismo, pretese di poesia: puah. Se poi per caso tutti gli italiani si dessero alle due ruote senza motore, lo stato fallirebbe, privato delle accise sui carburanti.
Non ci sono dunque speranze che il ciclismo ritorni alla grande: manco se gli nascessero insieme dieci Pantani. Ci vorrebbe qualche evento clamoroso, come una guerra, una ricostruzione umile, appunto “pedalando”. Ma forse il prezzo sarebbe troppo alto, lo diciamo da ciclofili come da pacifisti. Parliamo, chiaro, dell’Italia, altrove ci possono essere altre situazioni, persino culturali.
Tutto è deciso a priori, a monte, tutto deve convenire nel senso di affluire e nel senso di essere conveniente, tutto deve rispondere al mercato e intanto pascersi di mercato. Più ciclismo vorrebbe dire meno motorismo, anzi meno motorizzazione: è impossibile..
fffff
Viene in mente, a proposito di quanto scritto sin qui, quando al Giro o al Tour approda un personaggio famoso, di altro sport, solitamente il calcio, o di altro settore dello show, per esempio un attore di cinema, un cantante. Lui di norma segue una tappa, una giornata, e alla fine dice che i ciclisti sono meravigliosi, che affrontano fatiche inumane, che sono una lezione: per lui, per tutti. Il giorno dopo, o la sera stessa se il mezzo è abilitato al volo notturno, se ne va col suo elicottero, e beato chi lo vede ancora. Il ciclismo è l’acqua santa nella chiesa, quando ci si va si umetta la mano per il segno della croce. Ed è la cassetta delle elemosine: qualche spicciolo (di attenzione) e la sensazione di avere così aiutato la confraternita.
Naturalmente a noi che amiamo il ciclismo sapere tutto ciò non dà dispiacere. Sappiamo che non c’è niente da fare, e in fondo non ce ne frega niente. Quando addirittura non pensiamo che tutto sommato essere lasciati tranquilli, a goderci fra di noi le nostre bellissime cose, può rappresentare l’ideale. E temiamo sempre l’eccesso di confidenza.
Aspettiamo il bambino che, arrivato fresco fresco tra di noi dalla novella del re nudo, a un Totti o un Del Piero o un Vieri che giocano al gioco di amare il ciclismo esibendosi benevoli anzi devoti, innamorati sul traguardo di tappa, non chiede l’autografo e precisa che lo fa perché teme che non sappiano scrivere. Aspettiamo un Bulbarelli che, quando sul podio del traguardo l’Ospite recita di avere visto in gara cose sensazionali, dice: “Ma se hai sempre dormito!”. Sognamo un ciclismo senza splendori di luce riflessa, ma che così possa far vedere tutta la sua luce interiore.
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