Gianetti: «Un progetto, una sfida»

di Giulia De Maio

Mauro Gianetti ci guida alla scoperta della crescita esponenziale della UAE Emirates. L’ex pro svizzero è il team principal e CEO della formazione che nel 2017 ha ereditato la licenza World Tour della Lampre, l’ultimo grande team italiano, e che nel 2020 ha lasciato il segno nelle più importanti corse a tappe del calendario, trionfando al Tour de France con Tadej Po­ga­car.
Con l’acquisto di uomini da classiche del calibro di Matteo Trentin e Marc Hir­schi il team emiratino in questa stagione punta ancora più in alto. Ri­spetto alle altre squadre ha già mes­so a segno la prima vittoria del 2021: è la prima e (per ora) unica ad essere riuscita a vaccinare i propri componenti. Battuto il rivale più insidioso, quel co­ronavirus che il mondo del ciclismo proprio negli Emirati aveva conosciuto all’UAE Tour per la prima volta un anno fa, non resta che dimostrare di essere i più for­ti sulla strada.
Persistono tempi duri: come se la cava il ciclismo?
«Sta dimostrando elasticità. Viviamo in una costante bolla in cui ognuno deve avere pazienza ed essere prudente. Le relazioni con il pubblico, con i giornalisti e all’interno della squadra sono di­verse rispetto a quelle a cui eravamo abituati. Il nostro è uno sport più a contatto di altri, ci manca la vicinanza dei tifosi e degli addetti ai lavori. Era­va­mo inoltre abituati a un certo tipo di allenamento e gare, a seguire un piano affinato negli anni, invece ora con me­no punti saldi, tra cancellazioni e gare spostate, è importante che i corridori abbiano un buon livello fisico e mentale per essere pronti a eventuali cambiamenti. Ci aspettiamo qualche gara in più a fine stagione e qualcuna in meno all’inizio, ma dovremo essere flessibili. Da questo punto di vista il nostro mo­vi­men­to ha dimostrato il giusto atteggiamento, ogni com­­ponente ha fatto del suo meglio per il bene comune e il risultato è stato il mantenimento di un livello di competizione alto e spettacolare. Tutte le gare disputate sono state emozionanti fino all’ultimo momento. Abbiamo dimostrato di essere uno sport forte, in più c’è stato un vero e proprio boom legato alla bici, i negozi non ne hanno più da vendere. Dalla pandemia siamo lo sport che ne esce meglio, dobbiamo es­serne fieri».
La situazione finanziaria però non è delle più incoraggianti, soprattutto in Europa.
«L’economia vive un momento delicato, abbiamo visto tante squadre in difficoltà ma alla fine, a parte la CCC il cui primo sposnor era in scadenza di contratto, si sono salvate tutte. Qual­cu­na ma­gari è stata obbligata a ridimensionarsi, a ridurre gli effettivi, ma tutte hanno potuto proseguire la loro attività. Vi­vendo esclusivamente di sponsorizzazioni, per la sopravvivenza del ciclismo è fondamentale che l’economia riparta e la politica abbia una visione chiara e a lungo termine».
Cosa manca in Italia per poter tornare ad avere un team World Tour?
«Più che i soldi manca stabilità governativa. Le aziende non è che non sanno cosa dovranno fronteggiare tra 15 anni, ma non han­­no idea di cosa succederà nei prossimi mesi. Ce ne sono di alto livello che vogliono in­vestire nel ciclismo, ma non sanno qua­le sarà il loro futuro, quindi restano al­la finestra e comprensibilmente non scendono in campo. Ci vorrebbe un so­stegno politico per chi investe nello sport, le sponsorizzazioni devono essere riconosciute come un investimento, quindi per quello che sono (non beneficenza!), bisogna prevedere uno sgravio fiscale. Tutti ci mettiamo le medaglie al collo quando gli atleti di casa no­stra vincono, ma una maggiore stabilità darebbe più coraggio e forza a tutto il sistema che permette ai campioni e alle loro Nazioni di raggiungere certi traguardi. E poi servirebbe un bel progetto come quello che stiamo sviluppando noi negli Emirati, destinato alla promozione della salute, al benessere e alla sicurezza dei cittadini attraverso l’incentivo di percorsi ciclabili. La squadra non è nata per vincere corse ma per sconfiggere obesità e altre disfunzioni fisiche dovute a cattiva alimentazione e all’assenza di attività sportiva, problematiche che l’emergenza sanitaria ha dimostrato vanno af­frontate subito e in mo­do deciso. Il team trasmette il messaggio: praticate sport perché fa bene. Fa parte di un progetto a 360° che va ben oltre il programma agonistico».
Come valuti l’arrivo di procuratori provenienti dal mondo del calcio come Jorge Men­des? Qualche tuo collega ha storto il naso per paura che aumentino i prezzi...
«Non sono d’accordo. Reputo la professionalità una grande risorsa a cui attingere, quindi sono da sempre favorevole ad esperienze e figure nuove. Di­­mostra inoltre che il ciclismo è sempre più internazionale e appetibile, che c’è margine per lavorare sull’immagine e sulla sponsorizzazione degli atleti, ma non cambierà i soldi in ballo. Il modello ciclismo è una garanzia che si è consolidata negli anni, non muterà solo perché scende in campo un procuratore più o meno importante. Le squadre continueranno a investire il budget che ad ottobre hanno a disposizione, anche perché i regolamenti UCI non permettono chissà quali movimenti».
Spiegaci come siete riusciti a strappare Hirschi alla DSM con cui era sotto contratto.
«L’arrivo di Marc è stato naturale perché lui è un giovane di talento e noi possiamo garantirgli un progetto di fu­turo unico, visto che collaboriamo con università e con aziende tra le prime al mondo, come G42 che opera nel cam­po dell’intelligenza artificiale. Per­so­nalmente non ho mai negato un interesse nei suoi confronti, è da quando era junior che lo avrei voluto, in più sono svizzero e ho da sempre buoni rap­porti con il suo agente Fabian Can­cellara. Durante le feste, tra Natale e Capodanno, Marc ha espresso il suo desiderio di venire da noi seppur avesse un contratto di un anno con la sua vecchia squadra, ha deciso di rescinderlo e di unirsi a noi. Rispetto alla stagione passata abbiamo apportato solo quattro cambiamenti ma di peso. Mat­teo Trentin con la sua esperienza è una garanzia di vittorie per sé e per la squadra, abbiamo visto quanto è bravo in corsa anche quando indossa la maglia della Nazionale italiana, sarà utile in ogni frangente. Rafal Majka è lo scalatore di cui avevamo bisogno, tra i più forti al mondo, in carriera è già salito sul podio alla Vuelta, ha vinto la maglia a pois più volte, sarà un uomo prezioso per Tadej. Ryan Gibbons è un giovane con doti di altissimo livello, da far crescere, ha già dimostrato quanto vale ma con noi spiccherà un altro salto di qualità. Hirschi rappresenta la ciliegina sulla torta: a 22 anni ha vinto una tappa al Tour, si è giocato grandi classiche come Freccia e Liegi, al mondiale si è messo al collo la medaglia di bronzo che, se avesse corso in modo diverso, sono certo avrebbe potuto essere di un metallo più prezioso».
Qual è il segreto della crescita di questo team?
«Nel 2014 il governo degli Emirati si è prefissato un obiettivo chiaro: sconfiggere diabete e obesità per avere una po­polazione in salute. Hanno calcolato che, se non fossero intervenuti, nel giro di non molti anni avrebbero dovuto ve­dersela con costi insostenibili per la so­cietà, l’unico modo per prevenirli era darsi da fare quindi incentivare l’attività fisica. Così è nato un progetto di mobilità lenta per mettere la popolazione in bici e avere una società più sana. Il team è nato come una conseguenza per accelerare il progetto, creando emu­lazione. Inizialmente c’erano pochi spazi per le biciclette ma anche solo per fare due passi, non c’erano marciapiedi per passeggiare, mentre ora ogni città ha dai 10 km illuminati al circuito chiuso di 100 km di Dubai. In 3-4 anni verrà completata la rete di ciclabili di 2.300 km che collegherà tutti gli Emi­rati. Questa premessa è indispensabile per spiegare che chi ha voluto il team crede in quello che si sta facendo. È un progetto globale, per questo pri­ma che corridori scegliamo uomini di valore che sposino la mission, non pensiamo solo a vincere corse, ma ad essere testimonial di una vita sana. I nostri ragazzi devono essere promotori della bellezza di questo sport, con i piedi ben saldi per terra, il sorriso sulle labbra, l’orgoglio e la gioia di svolgere il lavoro più bello del mondo. Sono coinvolti, si sentono parte del processo che sta vivendo questa parte di mondo, nella quale ogni volta che vengono ve­dono con i loro occhi quanto sta cambiando e crescendo, come loro».
Ulissi purtroppo è fermo ai box per colpa di una miocardite emersa nel corso delle visite di inizio stagione. Dal ritiro gli avete mandato un emozionante coro da stadio che ben esemplifica lo spirito di questo gruppo.
«Quando uno sta bene e vince siamo felici, senza gelosie, quando soffre ci stiamo male perché è “uno di noi”. Diego è un pilastro di questa squadra, non solo perché ha chiuso la scorsa stagione come miglior italiano del World Tour e secondo miglior corridore del team, ma perché è un ragazzo gentile, saggio, professionale, che dà l’esempio ogni giorno di come deve essere un corridore. Speriamo i suoi guai fisici si risolvano al più presto, lo aspettiamo a braccia aperte».
Cosa hai chiesto ai tuoi uomini per il 2021?
«Di continuare a divertirsi, di fare quello che stanno facendo, quindi di vincere gare ma non solo. Al di là dei ruoli, siamo colleghi e amici che devono convivere con un periodo difficile. Al giorno d’oggi c’è tanto stress, dobbiamo essere compatti, aiutarci a vicenda, abbiamo la fortuna di vivere di uno sport eccezionale, alla base c’è passione e voglia di condividere l’amore per la bici con i ragazzini delle scuole e le persone comuni che incontriamo ogni giorno. Avendo vinto il Tour e avendo concluso il 2020 come terza squadra al mon­do, l’ambizione è almeno di ripetersi ma non abbiamo la pressione dei risultati perché, come detto, la nostra missione va al di là delle singole gare. Con l’emozione nel cuore, la consapevolezza di poter migliorare ulteriormente, viviamo il 2021 come un’opportunità in più per raggiungere grandi traguardi».

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