Gatti & Misfatti
Godiamoci Indurain, finchè dura...

Dice bene Evgeni Berzin: «Fra tre anni smetterà…». È l’atto di resa, ma in definitiva è anche e soprattutto un atto di stima, nei confronti di Miguel indurain. Ancora una volta, soprattutto stavolta, lo spagnolo ha spettacolarizzato l’estate sportiva vincendo un Tour de France. Il quinto consecutivo, una raffica ininterrotta di trionfi che non è mai riuscita a nessuno. E ovviamente non è finita qui: a 31 anni, ben curato come sa curarsi lui, ha davanti tutta una vita. Per questo ha ragione Berzin: c’è poco da fare, è come la «nuttata» di Eduardo, bisogna solo aspettare che passi.
Si può dire? Viva Indurain, grazie Indurain. La sua brutale superiorità consente di tirare un sospiro di sollievo, di riaccendere un minimo di speranza, di soffiare via qualche nube da questo sport bellissimo e sospettatissimo. Ultimamente stava mettendo radici una triste convinzione: che per vincere le corse in bicicletta, al giorno d’oggi, si debba viaggiare in Ferrari. Ovviamente inteso come Michele, medico radiato dall’albo dei medici sportivi, ma capolinea obbligato per giovani virgulti in cerca di esplosione o per vecchi arnesi in cerca di riabilitazione. La Gewiss va da lui e vince tutto, la Gewiss non va più da lui e comincia a perdere. Rominger straccia Indurain sul record dell’ora? Ma è normale, va da Ferrari. Cipollini ricomincia il 1995 volando? Guarda caso si è messo nelle mani di Ferrari. E quel Gotti? Sembrava perso, un anonimo e gracilino, guarda che Tour: sì, però quest’inverno si è messo in cura da Ferrari. Una regola, una costante troppo influente sugli ordini d’arrivo degli ultimi tempi. Diciamolo: una tristezza. Non è possibile, non è bello che dopo una vittoria si debba subito indagare su chi c’è dietro. Eppure era così: un ciclismo marchiato a fuoco.


Ecco perché viva Indurain e grazie Indurain. Anche lui ha equipes mediche ed assistenti alle spalle. Come tutti in tutti gli sport, perché non esiste che questa gente sopporti simili sforzi e ottenga certi risultati mangiando e allenandosi come studentelli da Giochi della gioventù. Ma Miguel ha almeno liberato l’ambiente dal tabù Ferrari, cui tutti sembravano destinati a rassegnarsi col passare delle gare. Vincere e stravincere si può anche senza recarsi in pellegrinaggio dal padre Pio della pedivella. E qui entra in gioco il discorso sui nostri, su questo ciclismo italiano che è ormai completamente escluso dai giochi di classifica nelle grandi corse a tappe. Inutile girare intorno alle parole o usare eufemismi di maniera: non abbiamo più nessuno che va a cronometro, dunque non abbiamo più nessuno in grado di vincere un Giro o un Tour. Siamo un ciclismo di giornata, a sovranità limitata. Cosa fare? Si potrebbe caricarli tutti su un pullman e mandarli in soggiorno obbligato da Ferrari, ma neppure questo basterebbe. Oppure si potrebbe piantare una grana sindacale contro gli organizzatori, obbligandoli a eliminare le cronometro: ma anche questa è una semplice utopia. No, è inutile giocare con la fantasia. Conviene fare una cosa più banale: copiare Indurain.

Copiare Miguel non significa andare come lui: per fortuna i fuoriclasse li fa la mamma e poi butta via lo stampo (vedi Prudencio), ma qualcosa è possibile “rubargli”. Per esempio, il metodo: dovremmo addestrare qualche giovane all’arte difficile dei grandi Giri, ritagliandosi la stagione e gli allenamenti esclusivamente per questi appuntamenti, perché è ormai il ciclismo è così ed è da idioti rincorrere i luoghi comuni di una volta, “quando i campioni vincevano da febbraio a ottobre”, senza specificare però che si correva la metà di adesso. Abbiamo del materiale su cui intervenire da subito - soprattutto Pantani, ma anche Gotti, Casagrande, Lanfranchi, Rebellin e quant’altri -, prima o poi qualcuno ce la farà. È vero che non vinciamo il Tour da trent’anni, ma proprio per questo la volta che ci riuscirà di nuovo sarà ancora più bello. Nel frattempo, nessuna fretta. Anzi, godiamoci Indurain finché dura. Poi toccherà di nuovo a noi. Il ciclo è una questione di cicli. Nel Giro del 1989 eravamo appesi a Giupponi che faceva un’onesta figura contro Fignon. Si disse e si scrisse allora che il ciclismo italiano era morto e sepolto, che era uno sport superato, che non interessava più a nessuno. Un inverno di funerali. Poi, in primavera, Bugno vinse la Sanremo e stravinse il Giro. In pochi mesi passammo da area depressa a capitale del boom, con squadre e sponsor e campioni invidiati in tutto il mondo. Tutto già visto e rivisto. Dunque, su allegri. Bisogna essere un po’ cinesi: quando infuria la bufera, siediti e aspetta che passi.

Cristiano Gatti, 38 anni,
bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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