Scripta manent
C’è di peggio, nella vita... di Gian Paolo Porreca

Sì, d’accordo, siamo qui per scrivere di ciclismo. Per commentare storie e personaggi, per illuminarli: a noi stessi, prima ancora che agli altri. E così sarebbe giustissimo sottolineare che il nostro disagio prioritario, il 20 novembre 2002, è che in Lituania non trovino di meglio che assegnare a Raimondas Rumsas - e perché no, per proprietà transitiva, a sua moglie Edita? - la stella al merito dello sport per il terzo posto conquistato al Tour. E che semmai la Lampre, col gaudioso alibi di una storia al buio dell’insufficienza di prove, sia pronta a confermarlo per l’anno successivo. Già, in fondo Rumsas non è mai risultato positivo all’antidoping e che la graziosa consorte, ormai in ambizione di bella vista su un prossimo calendario, se ne andasse in giro per la Francia sulle stesse strade del Tour, con una farmacia nel beautycase, anzi nel portabagagli, beh, sarà stato un disguido della sorte. Pfui, come sbuffavano nei cartoons di Walt Disney. O andate a quel paese, che è più o meno lo stesso concetto.

Ed ancora, dovremmo censurare l’ennesimo rifiuto a deporre di Claudio Chiappucci, nel processo di Bologna al dottor Ferrari. «La prossima volta lo faremo accompagnare dai carabinieri»: sacrosanta proposizione del giudice Passerini, come si sanzionerebbe indignati per un povero diavolo recalcitrante a comparire, per un grigio habitué delle ordinarie aule giudiziarie, e non per chi sorvolava in bici Izoard e Sestriere, sulle orme di Indurain. E semmai, potremmo fare dell’ironia sull’Epo contrabbandata in un team dilettantistico toscano nelle confezioni di pomodoro - San Marzano? -, risparmiandoci/vi lo sconcerto perdurante per una Università italiana che consente pilatescamente al professor Conconi di restare - ad onta del procedimento giudiziario a suo carico - Rettore Magnifico dell’Ateneo di Ferrara: e semmai di poter pure andare ad onorare il Presidente della Repubblica Ciampi, in visita nella sua città, disertando così proprio la contemporanea seduta inaugurale del processo in cui risulta essere tuttora il principale indagato per frode sportiva.

Vecchie storie, dite. Sarà. Dejà Vu, Conconi e Chiappucci, triti e ritriti, inqualificabili ma non squalificati, ma allora avremmo potuto scegliere le consone tonalità dell’elegia, salutando il ritorno in sella ed il contemporaneo saluto alla bici in un criterium a Valencia di Javier Ochoa, il gemello di Ricardo, quello rimasto in vita dei due fratelli travolti da un’auto forsennata nel febbraio 2001, a Malaga. O ancor meglio rendere omaggio ai quarant’anni imminenti di Martinello e Baffi, alle loro ultime Sei Giorni vittoriose, al loro prossimo addio ai velodromi: ed il dubbio lancinante su chi ci sarà - in pista - dopo di loro. Già, che ne sarà, ad onta delle buonissime intenzioni di Ceruti, della pista italiana? Dopo di loro e semmai pure dopo Villa...
Tutto giusto, tutte ipotesi di scrittura ed analisi valide e suggestive. Però stavolta, da questo osservatorio del ciclismo, da questa abituale interrogazione in merito, non di parte, sorge prepotente e precisa una ben diversa esigenza di giustizia. Ma perché mai, noi del ciclismo ci siamo tanto impegnati nel tentativo di moralizzare questo sport, di migliorarlo, di cancellarne o limitarne il vizio inquinante del doping, ci siamo autofustigati, ne abbiamo recitato in nome collettivo un mea culpa, ne abbiamo patito il taglio degli spazi redazionali a favore dei Piccoli Impuniti del motociclismo, e dobbiamo tollerare che si dia ancora siffatti rilievo e credibilità, pagine su pagine, al calcio di casa nostra? Ma chi si staglia, quale firma al di sopra del sospetto, della nomenklatura mediatica e giornalistica adusa al calcio di questi mesi, a dire “basta”, come abbiamo fatto noi del ciclismo con il doping? E in quanti, dopo l’ultimo Roma-Inter e l’Olimpico, fra Panucci e Morfeo, Cassano ed Almeyda, dopo Cagliari e il portiere Manitta, dopo Delianuova-Cavese, dopo Sensi e Galliani, se non dopo i capricci dei contratti televisivi hanno ancora l’indecenza di parlare di un calcio purtuttavia parente, sia pure lontano, ad uno sport?

Non torniamo alle vergognose pagine così presto voltate di Roma-Galatasaray, no, ma chiediamo come minimo - in accordo a quanto è stato fatto per quei ciclisti incriminati per doping - che qualcuno almeno escluda dalla Nazionale di calcio gli azzurrabili responsabili di violenze e atti proditori in campo e nei dintorni.
Un giorno di estate si è detto e scritto, ricordiamo, di fermare il Giro. In fondo, allora, con un fondo esasperato di ragione. Ma oggi si dica e si scriva, a voce più alta, di fermare in segno di ammonimento concreto quel Campionato di calcio italiano di serie A, “un bel campionato...”, bah, che è divenuto francamente una antologia di volgarità e cattivo gusto. E si chieda, come è stato fatto a suo tempo per il doping, una legge sulla violenza negli stadi più severa di quel decreto del 17 ottobre 2001. Ma una legge, amici del ciclismo e dello sport, qui volevamo arrivare, che sanzioni a norma di giustizia ordinaria, e non solo sportiva, mica solo gli spettatori, ma anche quei calciatori professionisti che in campo e nei dintorni si rendano protagonisti di atti di violenza, altro che clausola compromissoria!
La violenza negli stadi comincia dai calciatori nel rettangolo di gioco. E quelli vanno puniti, eccezionalmente, per limitare almeno l’inizio della fine di quel giocattolo, sempre più sconsigliabile alle persone civili, chiamato calcio.

Scusateci l’ardore, e la giustizia non è uguale per tutti, dovremmo saperlo alla nostra età: ed il Campionato non è il Giro, è il caravanserraglio comodo di tanti imbonitori. Ma a noi del ciclismo resta l’orgoglio di averla quantomeno cercata, ’sta beneamata giustizia. Pagando di persona l’imperscrutabile piacere della diversità. E della onestà.

Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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