Gatti & Misfatti
Il ciclismo, gli sponsor e la miseria umana
di Cristiano Gatti

Voglio pronunciare subito, chiara e forte, senza artifici ipocriti e falsi pudori, una parola che per troppo tempo è stata pronunciata a mezza voce, quasi con vergogna, sicuramente con imbarazzo: sponsor. Ma non mi fermo qui, voglio farmi del male. Dico anche: viva lo sponsor. Cosa sarebbe il ciclismo senza lo sponsor? C’è poco da fantasticare, non esisterebbe nulla. Si vedrebbero in giro tanti bei gruppi di pittoreschi cicloamatori, ma aldilà di certe facce paonazze e di certi profili adiposi, non esisterebbe lo spettacolo. Farà schifo, urterà lo stomaco, turberà gli animi più poetici, ma resta un fatto: dalle categorie giovanili al professionismo più esasperato, ci dev’essere sempre qualcuno che mette i soldi.

Tutti vittime di un’idea dello sport che risale a De Coubertin, si è andati avanti per anni a demonizzare la presenza degli imprenditori e dei loro marchi nell’attività sportiva. Chissà perchè, mentre ormai paghiamo anche l’aria che respiriamo, il ciclismo dovrebbe sopravvivere francescanamente, sputacchiando sdegnoso sui finanziatori. Ma c’è di più: c’è addirittura chi vorrebbe che gli sponsor versassero, ma poi si levassero velocemente dai piedi. Per dire: la Carrera e la Polti, la Saeco o la Gewiss dovrebbero certamente firmare assegni miliardari, ma guai se poi cercassero in qualche modo un ritorno pubblicitario. Naturale: in quanto enti di beneficienza, dovrebbero solo dire grazie. E magari scriversi babbo natale in fronte. Chissà perchè, in altri sport stendono il tappetino rosso. Vogliamo parlare del basket, che ogni anno rivoluziona la sua schedina identificando le squadre direttamente col nome di una cucina o di un lassativo? E la pallavolo non fa lo stesso? Loro si chiamano tranquillamente Stefanel o Maxicono - e pazienza se dietro c’è Milano o c’è Udine - quelli del ciclismo dovrebbero invece guardarsi allo specchio e vergognarsi come ladri. Sorry, perchè?

Difficile dire da dove nasca questa voglia di autoflagellazione, questo generale senso di colpa, questa irrisolvibile vergogna di se stessi. Io una mia idea me la sono fatta: a diffondere l’idea che lo sponsor sia qualcosa di peccaminoso e di abominevole sono stati i giornalisti. Ma non tutti: quelli venduti. Loro sì schifosi, loro sì spianati a pelle di leopardo davanti al gioielliere o al mobiliere che alza il telefono, sono i veri degenerati di un fenomeno commerciale di per sè lineare e corretto.
Allora: se il signor Pincopalla, che produce mortadelle, versa un miliardo alla squadra di Bugno perché questi vada in giro col suo marchio non c’è assolutamente nulla di male. Anche perché l’alternativa sarebbe che Bugno se ne stesse a casa sua, o al limite andasse in giro in taxi a spese sue. Tutto si deteriora quando il mortadellaio chiama il telecronista e l’inviato del giornale per invitarli a cena, quindi offre loro un orologio d’oro e un assegno adeguato, quindi questi il giorno dopo sparano diciotto volte in diciotto righe il nome della mortadella, o inquadrano a raffica il cartellone pubblicitario, e della corsa chissenefrega. Il campionario dei servigi che il giornalista zerbino può fornire è vasto e articolato: può parlare sempre bene della squadra della mortadella e sempre male della squadra che invece non invita a cena, non regala orologi e soprattutto non firma assegni. Può intervistare il signor Pincopalla, casualmente sul palco, e non intervistare il signor Pallapinco, che casualmente non è mai sul palco. E via vendendo. È chiaro che questo sottobosco di malaffare fa un gran male al ciclismo. Ma attenzione: non si sta parlando di sponsor, si parla semplicemente di miseria umana.

Se lo sponsor ha un difetto, è quello di risultare per definizione invadente. Lo sponsor vorrebbe si parlasse sempre di lui, crede che gli sia dovuto, pensa che ce l’abbiano tutti con lui. Spesso è fastidioso e rompiballe. Ma sono effetti assolutamente secondari e fisiologici: per arginarli bastano il buonsenso e la correttezza dei giornalisti normali. Quelli cioè che possono parlare o non parlare dello sponsor senza calcolare la contropartita. In totale serenità. Occhio invece agli altri, quelli che urlano contro l’invasione degli sponsor: sono gli stessi che poi si presentano all’incasso.

Cristiano Gatti, 38anni, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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