Editoriale
Mal d’ufficio. Nessuno può sapere come andrà a finire e, soprattutto, quando finirà. La magistratura indaga; i pentiti si pentono; i documenti spariscono per poi ricomparire. Laboratori chiusi e Coni quasi commissariato. Un’autentica rivoluzione nel nome della pulizia e dello sport. Ma, come sempre, c’è un ma. In tutte le situazioni giuste e nobili si nasconde chi da questa vicenda ne vuole uscire da eroe e non ha i titoli per esserlo. Sia ben chiaro: non stiamo vivendo nessuna azione persecutoria; la magistratura sta solo svolgendo il proprio dovere ma temiamo che si stia consumando in nome della verità una lotta ancora più sottile - forse neanche troppo -: una lotta di classe. Medici contro medici. Lo sport soffre di Epo, mentre molti dotti, medici e sapienti patiscono di mal d’ufficio. Ne ha parlato Francesco Merlo qualche tempo fa su Sette, inserto settimanale del Corriere della Sera, «il mobbing è il malessere provocato dalle calunnie dei colleghi, dalle prepotenze dei capetti e dei concorrenti, la maldicenza che ti ostacola la carriera». Mobbing, neologismo inglese, viene dal latino mobile vulgus, che significa appunto «il movimento della gentaglia». E l’impressione che abbiamo è che nei laboratori e nei corridoi del Coni di gentaglia se ne sia annidiata parecchia. Gente che ha sempre fatto di tutto per specchiarsi nel lavoro altrui. Uno su tutti: il professor Dal Monte, che all’epoca del record di Francesco Moser, seppe appropriarsi della primogenitura della bicicletta dei record (quella ad asse variabile, vi ricordate?), progettata, invece, da Antonio Brandazzi, ancora oggi grande mente progettuale e creativa della Cicli Moser. Di Dal Monte, nei palazzi Coni, ne sono girati parecchi, morsi tutti dal terribile mobbing. In questi anni molti professorini e dottorini hanno patito la ricerca e la fama del professor Francesco Conconi, che è chiamato oggi a difendersi da infamanti accuse. Noi non sappiamo se il professor Conconi sia colpevole di qualcosa, se la sua ricerca sia andata oltre (con l’autoemotrasfusione andò oltre, ma fu lui stesso a dirlo), di sicuro dovrà dimostrare di essere più forte della calunnia dei mediocri e delle meschinità dei colleghi frustrati.
Questa lotta al doping è cosa sacrosanta e giusta; ci auguriamo che la magistratura possa svolgere, fino in fondo, il proprio lavoro, senza condizionamenti e limitazioni di sorta, ma è necessario sforzarsi di distinguere le voci della ricerca da quelle dei maghi degli alambicchi; dei lazzaroni travestiti da moralizzatori. È difficile, lo sappiamo, quanto sconfiggere la cultura del doping. Ma che non si pensi che le analisi di Cipollini siano finite a Moby Dick da Santoro per grazia divina. Sono tanti i funzionari e i dottorini del Coni che hanno interesse a consumare le loro personalissime piccole grandi vendette. La magistratura saprà smascherare anche questi: speriamo.

Mal di CIO. L’avvocato Enrico Ingrillì l’ha detto a chiare lettere: qui o si fa l’Europa o si muore. Tradotto: o facciamo una vera associazione internazionale oppure andate pure avanti voi, io mi ritiro. Se l’Italia ha trovato in zona Cesarini un posto in Europa, il ciclismo e i suoi principali interpreti rischiano di uscirci definitivamente. La volontà è quella di rifondare il sindacato internazionale; Gianni Bugno è il candidato numero uno per andare a ricoprire il ruolo di presidente internazionale, mentre Marco Pantani si è già messo sulle spalle un fardello carico di problemi in nome di un’intera categoria. Da pochi giorni (il 31 dicembre) le cariche dell’Aicpro sono scadute e i corridori hanno la volontà e le idee per dare e darsi una nuova regolamentazione. Gli obiettivi: avere un rappresentante in ogni commissione dell’Uci che decida sul ciclismo professionistico; garantire la dignità della categoria attraverso regole sicure sul passaggio al professionismo, garanzie di solidità finanziaria delle squadre, minimi contrattuali idonei. Ma soprattutto, e questo è senz’altro il punto nodale, pianificare con l’Uci una normativa armonica e soprattutto ecua in tema della tutela della salute (doping). I corridori l’hanno detto e ripetuto con grande chiarezza e forza: l’intento è quello di far rientrare il ciclismo nel trattamento paritetico con gli altri sport professionistici. E, francamente, troviamo questa richiesta sacrosanta e giusta. Per anni i ciclisti sono stati considerati delle cavie da analizzare e guardare con sospetto, mentre i loro colleghi calciapedatori, pallacanestristi, pallavolisti, tennisti e via elencando ricevevano trattamenti ben differenti. I ciclisti sono stati messi alla gogna; le istituzioni li hanno usati per sciacquarsi le coscienze.Ora la parola passa al CIO, il massimo organismo mondiale, al quale spetta la prossima mossa.Sarà chiamato a dettare quelle regole paritetiche che finalmente consentano a tutti gli sportivi professionisti di essere giudicati in modo equo e uniforme. Perché il CIO fino a questo momento non ha operato per il conseguimento di questo elementare principio fondamentale? Èquesto il vero interrogativo.

Il calendario e Suor Germana. Il mondiale ad ottobre? Una fesseria. Il calendario? Semplicemente folle. Questi sono solo due dei grandi leit motiv che accompagnano ciclicamente il mondo del ciclismo. Per quanto riguarda il mondiale a ottobre non vi sono dubbi: è una fesseria. Rispetto al calendario folle che logora i corridori e li eleva a vittime di un martirio perpetrato dalle squadre siamo pronti in questo numero a dimostrarvi, dati alla mano, esattamente il contrario. Insomma, una volta tanto, vogliamo anche trovare un motivo per dire che le squadre e i loro team manager non sono degli schiavizzatori né gente senza scrupoli che usa i ragazzi come carne da macello da spolpare sulle strade del mondo. I corridori non sono repressi né tantomeno sfruttati. Corrono, questo è sicuro, anche perché hanno deciso di farlo per professione e taluni di loro sono anche profumatamente pagati per farlo (per chi lo fa pagando di tasca propria caliamo un velo pietoso), ma dalla nostra inchiesta emerge chiara una cosa: che i corridori di oggi corrono certamente meno di quelli di ieri (ai tempi di Saronni e Moser, per esempio, non c’era limitazione chilometrica, gli organici erano ridotti e, alla fine di una stagione, un corridore correva mediamente 140 giorni all’anno). Oggi solo le prove di coppa del mondo hanno chilometraggi superiori a 200 chilometri. Le squadre hanno la panchina lunga, per doppia o tripla attività. È vero, il calendario è foltissimo di appuntamenti, ma ogni team ha la facoltà e il dovere di scegliere - bene - nel mucchio gli appuntamenti più idonei. D’altronde, anche le edicole scoppiano di giornali, ma non per questo gridiamo allo scandalo: nessuno ci obbliga a comprarli tutti. Dobbiamo solo scegliere, selezionare. Il grave è quando si decide di far correre ad atleti di assoluto rango corsette di second’ordine come il Gp Primavera anziché la Parigi-Roubaix. Sarebbe come se, trovandoci in libreria, confondessimo il Pranzo di Babette con le ricette di Suor Germana. Sempre di libri si parla, ma c’è una bella differenza.
Pier Augusto Stagi
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