Scripta manent
La pista e i ragazzini
di Gian Paolo Porreca

Abbiamo coraggio. Al limite dell’impazienza ciclistica: e senza parlare prevedibilmente di doping. Parliamo invece di ciclismo su pista, a costo dell’impopolarità o di una verticale caduta di audience.
Parliamo invece di ciclismo su pista, a costo dell’impopolarità o di una verticale caduta di audience. Parliamo invece di ciclismo su pista, dopo la nostra débacle delle Olimpiadi di Sydney e quella ancora più malinconica dei Mondiali di Manchester, dove non ci ha sorriso, si sa, neanche un bronzo operaio.
Siamo cresciuti nel nome di Maspes, ovviamente, noi del primo dopoguerra, e con il suo tangibile mito. Semmai pure con la Milano laboriosa, in prima persona, del commendator Borghi e del marchio Ignis stampigliato sui pantaloncini neri.

Con Antonio Maspes, morto il 19 ottobre scorso, sette titoli iridati nella velocità individuale, come Jeff Scherens. Tre in meno, a voler speculare, di quelli vinti consecutivamente da Koichi Nakano negli anni ’80, ma sappiamo bene che quello corso sotto il Sol Levante era tutto un altro - virtuale - ciclismo su pista. Un po’ come paragonare una sinfonia di Mozart ad un’opera dodecafonica.
Ci siamo incantati, a contemplare le disfide della pista, in una cronistoria di emozioni, fra lunghissimi surplace e brevissime “belle”, dove aveva un ruolo di attore protagonista anche un dissacratore dello sprint corretto, come fu l’australiano Ron Baensch, il fallo per devozione. Siamo stati ragazzi, quando pure il maggiore quotidiano della nostra città, Il Mattino, aveva la temerarietà di sbattere un lunedì mattina, ad onta del calcio invadente, in prima pagina, in alto a destra, la fotografia del podio dei mondiali di velocità professionisti di Parigi. O forse di Berlino. O di Zurigo. O semmai era il ’55, a Milano... E c’era lì Maspes trionfante di certo al centro, e di lato quell’olandese con gli occhiali come un professore di latino e greco, Van Vliet, definitivamente sfiorito dalla grande guerra e forse uno svizzero dallo scontroso carisma, Plattner...

Siamo cresciuti con Maspes anche noi, nella classica musicalità del ciclismo su pista, e la sua scomparsa ci ha intimamente addolorato, in quello stesso verso testimoniato in punta di batticuore da Sante Gaiardoni, il suo prediletto rivale: «Con lui se ne va una metà di me». (E mentre scriviamo, cari lettori, ci rendiamo sinistramente conto che forse, dall’altura dei nostri cinquant’anni, abbiamo la pretesa immotivata di tramandare storie che sono purtroppo scollate dalla realtà).
Già. Ma che ne sa più oggi, questo appassionato di ciclismo che si firma qui sotto, di quel ragazzino che si chiamava come lui e che alle riunioni di ciclismo sul lungomare di via Caracciolo, nella sua città, il 1° maggio del 1959, si intrufolava fra le gambe dei grandi e gridava «viva Maspes!» e si intimoriva di colpo quando un omone con il cappello lo avrebbe apostrofato «chi piccolo, ma perché tifi Maspes che è uno straniero , invece di Sacchi o Morettini che sono italiani?»... La malintesa remora patriottica di quel cognome tronco...
Ma se è distante dalla verità odierna anche la nostra vicenda personale, noi ci auguriamo di tutto cuore che la storia del ciclismo su pista possa continuare. O meglio ancora, in Italia, ricominciare! Ricominciare da Maspes, prima di Beghetto e Bianchetto, prima di Damiano e Turrini. Ricominciare, emblematicamente con il velodromo milanese di via Arona che ha deciso di abbinare il suo nome glorioso - Vigorelli - a quello di Maspes. Il «Maspes-Vigorelli», come si corresse ancora il tandem.

Abbiamo appena visto che all’Open delle Nazioni, in Francia, a Bordeaux, la rappresentativa italiana (Mei, Martinello, Gentile e Villa) si è classificata penosamente al 13° posto, sulle 16 squadre partecipanti. Dopo ben quattro formazioni francesi. Dopo due formazioni tedesche. Dopo la stessa Slovacchia, di Jerabek e Lpeka, chi sono mai costoro, pure...
Ma d’altra parte, fra quattro mesi dovremmo avere disponibile, dopo una ventennale gestazione, pure l’inedito velodromo di Marcianise, a Caserta, 290 metri di sviluppo, come il catino olimpico di Monaco. E sarà l’imprimatur di una nuova svolta costruttiva, per il Sud ciclistico. In quella Campania miracolosa dove spuntò Crescenzo D’Amore, un argento sul chilometro da fermo, ai mondiali junior di Novo Mesto del ’96...
Ricominciare in pista, allora, sull’onda delle buone parole e dei migliori ricordi. In Italia. Ma si può? O lo si propone tuttora, qui e da altre più equivoche parti, solo per una capricciosa, utopistica devozione personale?

Noi crediamo, personalmente, che la pista abbia inossidabile un suo spazio ed ineguagliabile un suo fascino. Che vada insegnata innanzitutto ai ragazzini. Che sia una lezione di equilibrio e destrezza da inculcare proprio a scuola: semmai nell’ambito della didattica di Educazione fisica. (E che realizzazione, di fatto, sta avendo il benemerito impegno di cooperazione stipulato fra FCI e Ministero della Pubblica Istruzione?). Che sia obbligatorio potenziare e sponsorizzare, in ambito federale, le iniziative promozionali in tal senso. Non dobbiamo costringere a girare su una pista per bici atleti già sgamati ed educati ai ritmi e alle metodiche dello stradismo, no. Dobbiamo invece portare gli allievi, gli esordienti, i pulcini. Ad esaltarne il colpo d’occhio, l’intuito e la strategia del duello. Dobbiamo rifondare il pistard, dalle elementari. Con pazienza ed umiltà. Fuori i maestri. E ci sono. E spalanchiamo le piste pure all’entusiasmo prodigioso degli amatori, dei cicloturisti, al limite: per creare complicità e simpatia, la pista che crea un’atmosfera.
Da quelle bici per passione, per quell’amore raccontato di padre in figlio, sarà più facile far fiorire un Maspes sia pure piccolissimo. Ci basterebbe.

Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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