Scripta manent
La nuova sfida dell’Italia
di Gian Paolo Porreca

Le immagini del Lombardia, quelle immagini tardive, solo per condizionamenti meteorologici, si continua a sperare, e non per l’accanirsi contro il ciclismo di contingenze sfavorevoli, restano un congedo confortante dalla stagione. L’obiettività dell’osservatore, diciamo neutrale, di un sabato pomeriggio televisivo ha potuto fra l’altro ben confrontare la dimensione rigorosamente indoor, in vitro, di un incontro di pallavolo femminile. E l’esibizione a seguire, del tutto superflua, delle prove di un Gran Premio di motociclismo, fra Rossi, Katoch & C.: leggiadri modelli di comportamento, con tanto di “cavallo” a guarnizione, per i nostri giovani.

Bene, le immagini del Lombardia, a corsa finita, sono la palpitante lettura ultima del ciclismo 2001. E prima, del ciclismo in assoluto. In quel territorio dove non è necessario il ricorso all’artificio letterario, sovviene vincente la natura: l’avversità del clima, l’insulto della pioggia, l’asprezza dei paesaggi, il dibattito degli atleti... E trionfante, lo sport. Dal perdente Figueras, il napoletano di Arzano, lì dove le strade troppo spesso finiscono in cortili senza confini, una intelligenza e un equilibrio che non conoscono né la chiassosità di un Masaniello né l’ammiccamento di Maradona. Al vincente Di Luca, l’abruzzese di Spoltore, il biondo che non tradisce il concetto di una nobiltà genetica, fra lo svevo ed il normanno, insita nei capelli chiari, primo in uno sprint testa a testa che cristallizzava il batticuore e l’emozione altrui... E anche a Boogerd e Virenque, i dignitosissimi avversari stranieri di prima fila.
Il Lombardia, 95 anni di vita, non tradiva: in diretta o in differita. Il ritardo in quella teletrasmissione giovava ad esaltare nuovamente nell’appassionato il desiderio di una anticipazione via filo, poniamo la voce di un collega al seguito, il gusto della fantasia. Se non della simpatia personale.

Il Lombardia presente del sabato 20 ottobre scorso svelava così, in un parallelo da duellanti di vicende medioevali, il futuro plausibile del nostro ciclismo. Un futuro che da Bergamo, dall’atmosfera suggestiva e quasi toscana di una Bergamo Alta, fra Colle Aperto e via Sudorno, suggellava con felice idealità il concetto di un’Italia ciclisticamente prima e seconda. E una, innanzitutto. Coetanei, Di Luca e Figueras, 25 anni ambedue, vertici di una geografia che non conosce il Rubicone, già puntuali avversari nelle stagioni giovanili, si trovano ad essere oggi i messaggeri di un nuovo ciclismo italiano che in loro cerca credibilità, onestà, lealtà. Quantunque nel globo e nello sport dei nostri giorni, si sa, si diffidi sempre più dei termini astratti che finiscono con la “a” accentata...

Chiediamo a loro due, come sarebbe forse facile, non solo la vittoria nel prossimo Giro d’Italia o nella Liegi del 2002, in questo mondo che peraltro caccia sempre più fuori i secondi, a meno che non abbiano l’alibi di essere esponenti di un vizio a motore. Chiediamo a loro due, come è assai più difficile, che sappiano ancor meglio indirizzare i loro orientamenti e le loro personalità riconosciute a correggere i difetti talora inaccettabili del nostro - e loro - sport. Per una volta, lasciando stare il male endemico del doping, che non si abbiano più a verificare, ad esempio, imperdonabili insulti ai buoni sentimenti del pubblico del ciclismo o peggio ancora alla gente indifferente al ciclismo che lavora sulle strade, e che delle strade libere ha bisogno, come è accaduto all’ultimo Giro del Piemonte! Con un plotone di professionisti, pagati per arrivare o tentare di arrivare primi, assemblati nel pedalicchiare con la gaia negligenza di una scolaresca in gita di classe: come in una leggiadra pellicola di Pupi Avati. Tanto da dover esser messi fuori corsa dall’organizzazione, per infrazione alle regole del Codice della Strada. «Questi ragazzi devono imparare a rispettare i loro doveri, verso gli sponsor, gli organizzatori e ancor più verso gli appassionati, se vogliono che siano ancora compresi e salvaguardati i loro diritti», come ci confidava con una franca amarezza l’amico Carmine Castellano.

Di Luca, si sa, è atteso dalla verifica di ambizioni e qualità che è insita nel passaggio dalla Cantina Tollo-Acqua & Sapone alla Saeco Macchine per caffé, con il supporto dei fidi regionali Alessandro Spezialetti, Massimo Giunti e Cristian Pepoli. Figueras, campione del mondo Under ’23 nel ’96 a Lugano, dopo il rodaggio in seno alla Mapei, resterà devoto alla Panaria-Ceramiche Fiordo e al suo grumo di napoletani: Antonio Varriale, un passista per il quale preconizziamo un futuro da cronoman di rilievo nazionale, Filippo Perfetto e Domenico Romano, se sarà confermato nel team di Reverberi. Uno scalatore, questo Romano, per inciso, che nelle corse dell’estate e dell’autunno ha ribadito, per impegno e tenuta, le qualità disperse in un difficile inizio di anno e che potrebbe tornare assai utile ad un Figueras che nutra ambizioni di classifica in una corsa a tappe. Abruzzesi contro campani, così, ad armi ovviamente smusse, come sono i pedali. E anche questa disfida ci appare, per un corretto spirito municipale, non calcistico, non violento, assai edificante.

Un ciclismo italiano che inchioda il suo centro di gravità tecnico nel Centrosud, dunque. Ed è questa la chiave di lettura più interessante, più pregna di aperture in specie nell’ottica dell’acquisizione di nuovi sponsor e nuovi orizzonti politico-culturali, per uno sport che non voglia trincerarsi - o esiliarsi? - nel recinto prodigo del Granducato Toscano e del regno Lombardo-Veneto. Ed ambisca invece dal 2002 in poi a riguadagnare per intero, con primum movens garantiti quali appunto Di Luca e Figueras, quegli spazi agonistici e quelle straordinarie passioni, appena appena sopite, di troppe regioni della nostra Italia condannate a produrre più campioni che non appassionati di ciclismo.

Gian Paolo Porreca, napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare, editorialista de “Il Mattino”
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