In questi ultimi anni sono andato a due funerali di grossi personaggi dello sport: Nils Liedholm a Cuccaro, nel Monferrato dove lo svedese era finito a fare il vino grignolino, supervisionatissimo, lui pressocché astemio, da moglie e figlio, e Nino Defilippis a Torino, la sua città dove era conosciuto come il Cit, il piccolino. Liedholm è stato celebre calciatore e grande allenatore da scudetto, Defilippis è stato celebre ciclista e commissario tecnico da titolo mondiale (Gimondi 1973). Ho lasciato decantare i due momenti per poterli visionare meglio, spogli di emotività, come dire?, fresca. Tento ora di descrivere i due mondi e modi diversissimi che hanno animato e connotato le due funzioni funebri, contorni e dintorni compresi.
La premessa è che sono stato davvero amico dei due. Di Liedholm per vie mai bene chiarite né da me né da lui, né lui a me né io a lui. Forse semplicemente questione di feeling. Con Defilippis c’è stato ovviamente tutto un lungo andare insieme alle corse, lui a pedalare io a scrivere, e poi una vasta intanto intensa frequentazione reciproca, a Torino e fuori, per convegni dibattiti premiazioni banchetti discussioni, e anche per parlare insieme del nostro beneamato Toro (era maggio l’ultima volta che abbiamo fatto un viaggetto insieme, da Torino a Mede Lomellina per parlare di calcio e ciclismo, c’erano anche Mariella Scirea e Beppe Furino, due amici nostri, due della Juventus d’antan).
Chiaro che voglio riferirmi alla diversa specie di partecipanti ai due riti, e alla possibilità di fare alcune considerazioni forse non banali. Tutti i partecipanti appartengono, è vero, alla famiglia degli sportivi, ma forse ci sono poche famiglie al mondo dove i componenti siano così diversi di tipologia fisica, di attitudine mentale, di pensieri e di guadagni. D’altronde la prima osservazione riguarda gli abiti, con la precisazione che le due cerimonie si sono svolte entrambi in giorni di forte calura, dunque in linea di massima autorizzando e quasi comandando una uniformità del modo di vestire. Molto scamiciata, davvero, la cerimonia funebre per Defilippis, ben più elegante quella per Liedholm: a Cuccaro c’erano in chiesa gli abitanti del paese, con l’abito buono, e quelli arrivati da Milano, specialmente, e anche da altre città italiane, Roma compresa, e dunque abbigliati con eleganza, da viaggio ma anche da cerimonia.
Per Defilippis la Torino popolare, la sua vera, in una chiesona di periferia, in una vecchia borgata della città, dove Nino era andato a vivere nei suoi ultimi anni, lasciata la casa sulla collina che gli aveva creato problemi di distanza dai centri commerciali dove aveva impiantato la sua attività di ritorno, quella di produttore di agnolotti e gestore di ristoranti in tema, insomma il vecchio mestiere di famiglia. Liedholm fra poche case in piena splendida campagna, dunque, e Defilippis in una quasi desolazione urbana, ancorché la vecchia borgata significasse almeno l’assenza di casermoni, e la collina torinese fosse poco, pochissimo distante.
Sul sagrato della chiesa di Cuccaro chi non aveva trovato posto all’interno, o comunque non voleva spartire la cerimonia religiosa, sul sagrato della chiesa di Torino persino bicicletta da corsa lasciate lì da ciclisti amatori che erano entrati nella chiesa in maglietta e calzoncini. In divisa da atleta, non da calciatore, i ragazzi che club anche di serie A avevano inviato da Liedholm con labari e bandiere, ma ben altra cosa, sul piano della semplicità affettuosa, di questi ciclisti antichi, ognuno con un suo ricordo speciale del Cit, ognuno alla ricerca di un amico, un giornalista al quale partecipare il souvenir.
Io sono arrivato al ciclismo quando Defilippis andava forte, ma soprattutto andava forte il ciclismo, con Coppi vivo e pedalante, e Bartali che aveva lasciato le corse da poco e Nencini che si preparava a vincere il Tour e i quotidiani sportivi ai quali bastava un Giro della Campania per titolare vistosamente tutta la prima pagina e schiacciare il calcio anche di serie A nel taglio basso. Sapevo bene, nei due giorni dei due funerali, che in un mezzo secolo tante cose sono cambiate e i due sport non si dividono più il mondo anzi l’Italia, ma uno - il calcio - è padrone di tutto e lascia al ciclismo soltanto speciali briciole fatte di affetto vecchio e poetico dei penultimi mohicani. Sapevo tutto, ma riscontrare quel che sapevo lì, nelle due cerimonie, mi ha colpito. Attenzione, sto parlando di diversità di situazioni, e dunque non stilo nessuna graduatoria. Personalmente, poi, preferisco un abito semplice ad un abito di sartoria. Ma certo che la diversità, c’è, e si vede. E magari qualcuno la patisce.
Da quando ho avvertito chiaro che il ciclismo soggiace materialmente al calcio, in un mondo che della supremazia morale se ne frega sempre più, ho preso ad amare il ciclismo quasi furiosamente. Mi sono sorpreso (felicemente) a frequentare questo pensiero anche al funerale di Defilippis. Ma che bello è il popolo di quelli in maglietta assurdamente colorata e braghette sempre ridicole. Che piacere la stritolatrice stretta di mano di quello che ti anticipa con il suo “so che non ricordi chi sono” (verissimo, non ne ho la minima idea, frequento un enorme fondale strapieno di facce che dovrei conoscere e non riconosco) e però ti gratifica di un ricordo preciso sul traguardo di una corsa, quella sera del dopotappa, quella volta che andai a parlare di ciclismo in un paesello, il suo, e mi diedero pure dei soldi per le spese e il disturbo, non sapendo, quei meravigliosi innocenti, che avrei pagato io per poter parlare ed essere ascoltato.
Adesso chi verrà di notte a tirarmi per i piedi, avendo usato il suo funerale per tenere un certo discorso? Nino o Nils? O tutti e due insieme, parlando fra di loro l’esperanto dei campioni veri, che sono poi semplicemente veri uomini? Vengano pure, tutto è meglio che dormire, il sonno ormai è sempre più un letargo.
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