Nel ciclismo c’è una confusione ideologica che rischia di diventare una confusione esiziale, con un tremendo gioco suicida o comunque autolesionistico degli opposti.
Cerchiamo di essere semplicissimi. Tema: il doping e il parlare del doping. Il doping uccide il ciclismo, la gente non ne può più. No, la gente ama sempre il ciclismo, il doping casomai seleziona i ciclisti, mette alla prova l’amore dei ciclofili. Paradossalmente (o no?) proprio il doping certifica, conferma, rafforza la tesi dell’immortalità del ciclismo, che è fatto di sentimenti imperituri. Macché, il doping corrode, un certo giorno ci sveglieremo dal sonno dei residui sentimenti pro ciclismo per strani rumori, sarà il Giro d’Italia che passerà sotto le nostre finestre e non ce ne accorgeremo quasi.
Si prenda il cicloturismo. È fiorente, è affollato anche se costa ormai caro, con tutta la tecnologia sofisticata che viene applicata alle nuove biciclette. No, il cicloturismo di massa è la prova che la gente che pedala cicloturisticamente, poeticamente, non ne può più del ciclismo agonistico classico, snaturato appunto dal doping. Mica vero, la gente pedala ispirandosi ai campioni, dopati e no. Mica vero, la gente fa la sue scelte, le sue selezioni. Ma andate tutti a farvi benedire, nel cicloturismo il doping non solo esiste, ma è galoppante, dilagante, travolgente.
Ogni frase regge, ogni frase convince. Vero che ci vorrebbe una scelta, come sempre accade quando ci sono problemi grossi e punti di vista credibili, e comunque problemi da discutere: specialmente allorché sono in ballo i sentimenti, o quello che resta di essi. Ma non è questo il punto, almeno per quel che riguarda il nostro discorso. Il punto è che quanto abbiamo scritto sin qui ha magari una sua validità, anche perché offre larghi spazi di pensiero, contemplando il bianco e il nero, il buono e il cattivo. E anche perché - ecco il punto, o almeno un punto – si rivolge, dicendo del ciclismo, a gente comunque del ciclismo.
Fuori dal ciclismo, e pur restando nell’ambito dello sport, quanto noi abbiamo sin qui scritto rischia di non essere capito, di essere scambiato per goffo tentativo di difesa, di venire ritenuto un problema interno del mondo della bicicletta, di equivalere ad un arzigogolare per coprire con le parole, con il bla-bla-bla, una realtà atroce, di essere discorso condotto da un cieco che pretende di farsi valido col parlare forte, visto che non vede cioè non capisce nulla.
La nostra confusione ideologica è questa: non riusciamo a capire, non vogliamo capire che le nostre idee, anche quelle eventualmente valide, hanno il limite del nostro linguaggio, dei nostri spazi tribali, della nostra confraternita per non dire della nostra parrocchietta.
Abbiamo sul doping un atteggiamento di valida autodenuncia, abbiamo contro il doping regolamenti duri, abbiamo campioni che hanno pagato, che stanno pagando. Ma fuori dal ciclismo il nostro sport è considerato un sabba di gente drogata, di complicità sataniche, ben che vada di ignoranza o cretineria somma. Si celebra quel rito ancora sommo che si chiama Tour de France e a corsa ancora calda si dice che adesso bisognerà attendere che quelli dell’antidoping ci dicano se il vincitore e se i grandi sconfitti sono puliti o no. Da fuori, sembriamo un grande itinerante manicomio criminale. Un mattino apprenderemo di essere stati sbattuti fuori dai Giochi olimpici e non sapremo cosa dire, cosa fare. Ma allora?
Ma allora dobbiamo farci furbi, attaccare per non essere sempre e soltanto attaccati, attaccare quelli che gettano sospetti su ogni nostro evento, dal circuito cicloturistico di Roccacannuccia al tappone del Giro d’Italia. Isolando i nostri corridori/peccatori. Sfruttando ogni occasione mediatica. Attaccando con un piano federale, sì. Accettando di gettarci nel baratro, però abbracciati ad altri. Non possiamo osare di sperare che fuori dal ciclismo venga capita e apprezzata la lotta nostra al doping. Dobbiamo dirci colpevoli, malati, per poter dire che anche gli altri non sono sani. Dobbiamo approfittare di ogni occasione, fosse anche l’intervista televisiva per parlare di un callifugo, per dire che gli sport dove non c’è il doping sono molto semplicemente gli sport dove non esiste l’antidoping che lo denunci.
Anche perché, se si vuole davvero battere il doping, bisogna dilatare il problema, farlo cosmico. È come una malattia: gli studi, le spese, le ricerche per debellarla vengono affrontati soltanto se la malattia stessa è universale, se colpisce tutti. Invece di dire “noi drogati, ma neanche tanto, comunque reattivi”, bisogna dire “noi drogatissimi, ma tutti drogati: e allora cosa si fa?”. Altrimenti il ciclismo viene usato da tutti gli altri sport: lui brutto e cattivo, noi belli e buoni, belli e sani. Perché per la dose di sdegno media, normale del bipede umano, uno sport da crocifiggere basta e avanza. Perché per l’ipocrisia farisaica della massa il ciclismo serve benissimo come sfogatoio. Perché i ciclisti sono poveri (di spirito: cioè poveri nello spirito, quelli insomma del discorso della montagna, non carenti di spirito inteso come intelletto) che si offrono ad essere sbranati.
Perché non è davvero bello non poter ormai celebrare una corsa che è una senza aver paura del doping, di qualche tegola che ci cadrà in testa. Non accade in nessun altro sport. Non è mai accaduto nello sport, anche se certi pensieracci sul ciclismo cominciano ad essere spostati su altri sport (rari) che si avvicinano al ciclismo perché masochistici e onesti, come l’atletica leggera, persino e specialmente quella mondiale e olimpica. Perché io ho sei nipotini che cominciano a farmi domande pesanti sul perché mi occupo di ciclismo.
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