Grandi incertezze anzi grosse contrapposizioni di giudizio a proposito dell’ultimo Giro d’Italia: e sarà bene discuterne per tempo, in vista del prossimo. La domanda di fondo, banalotta ma comprensibile, è questa: è stato un Giro bello o è stato un Giro brutto? La stessa domanda prescinde, così almeno ci pare, dal fatto che abbia vinto il russo Menchov e non l’italiano anzi il gran bel terrone Di Luca: e questo tutto sommato ci appare molto bello, molto civile. Siamo certi che, allorché lo straniero è scivolato sulla strada romana di porfido, cadendo a pochi metri dal traguardo, quasi tutti hanno (abbiamo) fatto il tifo perché si rialzasse subito e concludesse la prova senza danni. Il che è fortunatamente avvenuto, con l’applauso dello stesso sportivissimo Di Luca.
I giudizi difformi appartengono non tanto all’esisto finale della novantaduesima edizione della corsa, quanto al suo andamento, sottomesso ad una geografia nuova, magari imprescindibile visto che si trattava del centenario e una certa Italia doveva essere sottolineata, un’Italia imprescindibile ma ciclisticamente difficile da accettare. La gente si è sicuramente interessata, quando non addirittura appassionata, agli ordini d’arrivo, tappa dopo tappa, e ci sono stati ascolti televisivi assai alti. La gente - nostra impressione - non si è però appassionata al Giro come corsa nel suo insieme tecnico-agonistico. Non è stata coinvolta nell’idea di un giro per l’Italia, ecco. La partenza dalla città meno italiana del Bel Paese, quanto ai passaporti di chi, dandosi continuamente il cambio, la popola, cioè Venezia, non ha neppure la “scusa” della tradizione. Le Dolomiti sono state poche e sono arrivate troppo presto, le Alpi si affidavano alla troppo attesa Cuneo-Pinerolo della quale pare si conoscesse da molto tempo la non effettuabilità se non per piccoli tratti, piccole salite (ma non esisteva un percorso alternativo meno squallido di quello proposto?). La domenica a Milano è stata una frana. Il Sud è diventato soltanto il Vesuvio, cartolinesco ma non connotante, e il finale romano senza la caduta di Menchov sarebbe stato tutto grigio (domanda: qualcuno ricorda chi ha vinto la cronofrazione di chiusura?). Forse sarebbe giusto riparlare di centenario nel 2017, quando si svolgerà la centesima edizione della corsa, che così davvero farà cifra tonda smaltendo le soste organizzative dovute alle due guerre mondiali.
Ma cerchiamo adesso di andare al di là di un semplice giudizio su una gara a tappe. Fra l’altro abbiamo una grande allergia per il giudicare, e ci piace usare l’aggettivo “diverso” assai più che l’aggettivo “migliore” o “peggiore”. Il fatto che l’ultimo Giro, geograficamente assurdo, tradizionalmente debole (nel senso di scarso quanto a rispetto e dunque a forza di tradizione), sia comunque andato bene come audience ed abbia funzionato benino nell’immaginario della gente, e questo nonostante l’assenza di grandi campioni, fa felicemente pensare che esista una voglia di Giro, una voglia che trae la sua forza da un sentimento non solo affettivo, non solo sportivo in senso stretto, ma anche culturale. Il Giro d’Italia per farci sapere che comunque esiste l’Italia. Non esageriamo assolutamente, men che mai in questo tempo di ideali latitanti, carenti, dissoltisi.
Si parla sempre di rincorsa del Giro al Tour de France, che rimane di gran lunga la più importante manifestazione ciclistica del mondo, e si fanno cifre riguardanti le emittenti televisive, le presenza giornalistiche, la quantità di addetti ai lavori, il fatturato pubblicitario. Il Tour stravince, anche se comincia a conoscere qualche difficoltà di natura diciamo pure materiale. Ma in tempo di crisi le grandi cifre possono diventare grande handicap, e di contro prendono forza e valenza altri valori che non sono quantificabili in numeri. Ecco, forse nelle pieghe di una edizione tecnicamente non riuscita, e nelle pieghe di un’audience felice ma forse non attesa, il Giro d’Italia ha avuto e usato la straordinaria occasione di scoprirsi necessario o quanto meno fondamentale come fenomeno culturale: almeno sino a che la parola cultura non sarà diventata, dalle nostre parti, sinonimo di reato. Cultura diciamo pure nazionalistica, blandamente nazionalistica, ma non mai sciovinistica (continuano a non volare insulti e men che mai ceffoni tra le fazioni di tifosi del ciclismo). Cultura che di fronte al clangore calcistico sa di gelosia possessiva di quel che si ha, ma sempre cultura. Cultura di valori semplici, sani, magari non più santi per via del doping, ma intanto sinceri. Cultura - udite udite - della fatica, della sofferenza, pazienza se sempre pregnanti e non sempre premianti. Cultura persino riprodotta, partecipata in televisione: il Processo alla Tappa è stato, da questo punto di vista, molto bello, complimenti a tutti.
Non vogliamo esagerare, ma se il caro amico Zomegnan ci avesse offerto un Giro classico, attirante e coinvolgente in battaglie diciamo classiche grandi campioni (ammesso che ne siano), magari ci saremmo interessati di più alle sue vicende canonicamente sportive, ma avremmo avvertito di meno una certa sua forza tranquilla e però definitiva, la forza di proporsi come se stesso indipendentemente dal percorso e dalle gesta, la forza, sempre più rara, di essere quello che si è (essere, non apparire) e di vedere che c’è gente che ancora capisce, apprezza, custodisce, offre.
fffffffff
Piccola notazione personale. Per ragioni di marketting (traduzione libera…) seguo un po’ dovunque le sorti di due miei “ciclistici” libri usciti da poco, contatto gente, coinvolgo assemblee, dai cicloturisti in dosi massicce agli intellettuali ciclofili quasi clandestini. Si parla tanto, tantissimo di ciclismo, di Giro, di Tour, di campioni. Sono pronto a tutte le contestazioni, disposto a tutte le constatazioni, lo dico, lo giuro per stimolare il dibattito. Non trovo mai uno, dico uno, che mi parli, che mi chieda di doping, che accusi i giornalisti di ignoranza o complicità in fatto di chimica proibita. Che discuta le gesta avanzando sospetti sulla loro credibilità.
Magari siamo tutti innamorati, magari. Ma non me la sento di dire che siamo anche tutti scemi. E quando, parlando, ho voglia di un applauso, dico semplicemente che gli sport senza doping sono quelli senza valido antidoping. Ci capiamo, subito. E anche qui, alla fine dell’articolo, posso magari dire che ci siamo capiti.
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