Rapporti&Relazioni
Due lacune che ho colmato

di Gian Paolo Ormezzano

Stavolta scrivo di un giornalista che ha finito da poco di scrivere due libri en­tram­bi ciclistici - sia pure in ma­niera diversa - e che teme di avere colmato non una lacuna, quella classica, ma almeno due, una per libro. Sic­come sono io quel giornalista, e cerco disperatamente di non prendermi sul serio, co­mincio col dire che colmare una lacuna, come si suol dire a proposito di opere presunte me­ritorie, libri e simili, è una cosa non sempre bel­la. Certe lacune significano mistero, op­pure svagatezza, oppure di­menticanza, oppure distrazione, tutte situazioni che possono essere apprezzabili: mistero cioè segretezza, svagatezza cioè leggerezza che potrebbe anche risultare poetica, di­men­ticanza che potrebbe an­che dire rifiuto di memorie pe­santi e stereotipate, distrazione cioè assenza di maniacale precisione, per non dire di odiosa fissazione. Dunque colmare una lacuna può anche significare privare altri della possibilità di gustare le delizie del dibattersi dentro questa stes­sa lacuna, di gustare le sue virtù di evasione da brutte be­stie apoetiche che si chiamano completezza, precisione, pi­gnoleria.

Ho scritto, e fra non mol­to dovrebbe essere in libreria, un libro che, andando verso il 2010 dei cinquant’anni da che è mancato Coppi e dei die­ci anni da che è mancato Bartali, esegue una semplice ma intensa operazione di amarcord mirato, con i due primogeniti dei gran­di campioni, Andrea fi­glio di Gino e Marina figlia di Fausto. Un dialogo con loro due, nonché con altri testimoni e amici di buona bella me­moria, su tutti il “terzo uomo” Fiorenzo Magni, e una lunga serie di annotazioni sull’Italia di allora, non solo sul ciclismo di allora, mi hanno portato a scrivere un libro che, se stesse in me, intitolerei semplicemente L’amico di papà. Senza forzatura alcuna i due figli in­fatti partecipano, corroborano, certificano con me la tesi per cui i due grandi furono sì rivali ma non mai nemici, riuscirono ognuno a soffrire per le disgrazie, i lutti dell’altro, frequentarono idee diverse sulla vita, sul matrimonio, sul­la politica (ma mica poi troppo, in questo caso) e si trovarono addosso il ruolo eccessivo di rappresentante ognuno di un’Italia “altra” rispetto a quella del rivale, senza aver fatto nulla di gaglioffo, di calcolato per forzare la dicotomia già fortissima “di suo”. Pare proprio che sia stata la stampa (dominante allora quella scritta, con la televisione appena incipiente) a scovare, ingrandire, forzare, enfatizzare la di­cotomia stessa. Alla fine la differenza sostanziale, che allora divise l’Italia ma che oggi avreb­be una eco ridotta, fu questa: Bartali mo­no­gamo, Cop­pi no (non c’era il d­i­vor­zio, non poteva esserci un Cop­pi bigamo). Nel libro ci sono mol­te conferme spicciole, compaiono alcune novità, c’è soprattutto la lettura di tipo nuovo di una rivalità fra amici e non fra nemici, con complicità assortite ma sem­pre te­nere, semplici, pulite. I due figli sono stati semplicemente meravigliosi, Andrea offrendo il suo ar­chi­vio mentale fornitissimo, per la lunga consuetudine col papà, Ma­rina le sue sensazioni di bimba, poi di ragazzina. Penso che anche il giornalista più trucido e gossiparo si sarebbe arreso davanti alla bella semplicita dei due, al nitore dei loro ricordi, alla purezza nel custodirli e parteciparli.

L’altro libro è un giallo, an­tico di un quarto abbondante di secolo, rimesso in sintonia con i tempi. È il Giro d’Italia con de­litto che scrissi per l’editoria scolastica, con successo scarso. La trama, giallissima, con soluzione all’ultima parola, non all’ultima riga, mi pare tenere bene ancora oggi. Me­ri­to del ciclismo che resta se stesso? Colpa del ciclismo che non si rinnova? Io non lo so. Io so soltanto che ho scritto, rapportando al formato medio dei libri quello medio dei gior­nali, mi­gliaia e migliaia di pa­gine di teorici volumi sul ciclismo, i suoi uomini, le sue co­se, però scrivendo il giallo ho scoperto o meglio ho rivi­sitato au­tentiche magie di questo sport, del Giro d’Italia, della sua gente mitica e della sua gente mistica. Non ho colmato nessuna lacuna, ben altri sono stati sulla corsa rosa gli interventi letterari, autenticamente letterari, di grandi scrittori ve­ri (io mi ritengo al massimo un giornalista che scrive), e quanto alla speziatura del romanzo, farcito di morti e feriti, mi ha preceduto eccome Gianni Mu­ra, grande collega e ciononostante grande amico, col suo Giallo Tour. Però ri­leg­gendo il libro di tantissimi an­ni prima, e intervenendo perché facesse su se stesso una sorta di mu­ta di pelle conservando però la buona sua struttura diciamo corporea, la sua sostanza, ho scoperto che non amo abbastanza il ciclismo, per il tantisismo che mi ha da­to, che mi continua a dare, che mi fa intravedere, che mi lascia fare, permettendomi persino di spupazzarlo un po­co. Casomai sono io la lacuna da colmare, per questa mia inadempienza d’amore.
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