Stavolta scrivo di un giornalista che ha finito da poco di scrivere due libri entrambi ciclistici - sia pure in maniera diversa - e che teme di avere colmato non una lacuna, quella classica, ma almeno due, una per libro. Siccome sono io quel giornalista, e cerco disperatamente di non prendermi sul serio, comincio col dire che colmare una lacuna, come si suol dire a proposito di opere presunte meritorie, libri e simili, è una cosa non sempre bella. Certe lacune significano mistero, oppure svagatezza, oppure dimenticanza, oppure distrazione, tutte situazioni che possono essere apprezzabili: mistero cioè segretezza, svagatezza cioè leggerezza che potrebbe anche risultare poetica, dimenticanza che potrebbe anche dire rifiuto di memorie pesanti e stereotipate, distrazione cioè assenza di maniacale precisione, per non dire di odiosa fissazione. Dunque colmare una lacuna può anche significare privare altri della possibilità di gustare le delizie del dibattersi dentro questa stessa lacuna, di gustare le sue virtù di evasione da brutte bestie apoetiche che si chiamano completezza, precisione, pignoleria.
Ho scritto, e fra non molto dovrebbe essere in libreria, un libro che, andando verso il 2010 dei cinquant’anni da che è mancato Coppi e dei dieci anni da che è mancato Bartali, esegue una semplice ma intensa operazione di amarcord mirato, con i due primogeniti dei grandi campioni, Andrea figlio di Gino e Marina figlia di Fausto. Un dialogo con loro due, nonché con altri testimoni e amici di buona bella memoria, su tutti il “terzo uomo” Fiorenzo Magni, e una lunga serie di annotazioni sull’Italia di allora, non solo sul ciclismo di allora, mi hanno portato a scrivere un libro che, se stesse in me, intitolerei semplicemente L’amico di papà. Senza forzatura alcuna i due figli infatti partecipano, corroborano, certificano con me la tesi per cui i due grandi furono sì rivali ma non mai nemici, riuscirono ognuno a soffrire per le disgrazie, i lutti dell’altro, frequentarono idee diverse sulla vita, sul matrimonio, sulla politica (ma mica poi troppo, in questo caso) e si trovarono addosso il ruolo eccessivo di rappresentante ognuno di un’Italia “altra” rispetto a quella del rivale, senza aver fatto nulla di gaglioffo, di calcolato per forzare la dicotomia già fortissima “di suo”. Pare proprio che sia stata la stampa (dominante allora quella scritta, con la televisione appena incipiente) a scovare, ingrandire, forzare, enfatizzare la dicotomia stessa. Alla fine la differenza sostanziale, che allora divise l’Italia ma che oggi avrebbe una eco ridotta, fu questa: Bartali monogamo, Coppi no (non c’era il divorzio, non poteva esserci un Coppi bigamo). Nel libro ci sono molte conferme spicciole, compaiono alcune novità, c’è soprattutto la lettura di tipo nuovo di una rivalità fra amici e non fra nemici, con complicità assortite ma sempre tenere, semplici, pulite. I due figli sono stati semplicemente meravigliosi, Andrea offrendo il suo archivio mentale fornitissimo, per la lunga consuetudine col papà, Marina le sue sensazioni di bimba, poi di ragazzina. Penso che anche il giornalista più trucido e gossiparo si sarebbe arreso davanti alla bella semplicita dei due, al nitore dei loro ricordi, alla purezza nel custodirli e parteciparli.
L’altro libro è un giallo, antico di un quarto abbondante di secolo, rimesso in sintonia con i tempi. È il Giro d’Italia con delitto che scrissi per l’editoria scolastica, con successo scarso. La trama, giallissima, con soluzione all’ultima parola, non all’ultima riga, mi pare tenere bene ancora oggi. Merito del ciclismo che resta se stesso? Colpa del ciclismo che non si rinnova? Io non lo so. Io so soltanto che ho scritto, rapportando al formato medio dei libri quello medio dei giornali, migliaia e migliaia di pagine di teorici volumi sul ciclismo, i suoi uomini, le sue cose, però scrivendo il giallo ho scoperto o meglio ho rivisitato autentiche magie di questo sport, del Giro d’Italia, della sua gente mitica e della sua gente mistica. Non ho colmato nessuna lacuna, ben altri sono stati sulla corsa rosa gli interventi letterari, autenticamente letterari, di grandi scrittori veri (io mi ritengo al massimo un giornalista che scrive), e quanto alla speziatura del romanzo, farcito di morti e feriti, mi ha preceduto eccome Gianni Mura, grande collega e ciononostante grande amico, col suo Giallo Tour. Però rileggendo il libro di tantissimi anni prima, e intervenendo perché facesse su se stesso una sorta di muta di pelle conservando però la buona sua struttura diciamo corporea, la sua sostanza, ho scoperto che non amo abbastanza il ciclismo, per il tantisismo che mi ha dato, che mi continua a dare, che mi fa intravedere, che mi lascia fare, permettendomi persino di spupazzarlo un poco. Casomai sono io la lacuna da colmare, per questa mia inadempienza d’amore.
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