Rapporti&Relazioni
Memorabilia

di Gian Paolo Ormezzano

Domanda cosmicomica rivolta a se stesso da chi scrive questa ru­brica: quando nel nome del ciclismo ti invitano a qualche convegno-tavolarotonda-dibattito-convegno-seminario-congressino-premiazione-banchetto-eccetera, significa che sei bollito, per anagrafe o altro, così che i ciclofili vogliono terribilmente e semplicemente godersi le tue acrobazie, riuscite o meno, di memoria e farsi ma­gari due risate oltre che farti duemila correzioni-precisazioni, oppure che il mondo delle due ruote crede ancora nelle pa­role, e se queste parole espongono anche sentimenti tanto meglio.

Per squallide ragioni anagrafiche mi trovo spesso invitato, da “reduce”, a questa o quella manifestazione, a priori piacevolissima co­me programma, intenti, premesse e promesse. Ho sempre paura di finire per fare la parte del vecchietto che nei film we­stern sta nel saloon ad un tavolo abbastanza decentrato (nel senso che le cose vere o meglio importanti accadono altrove) e scaracchia i suoi ricordi, le sue presunte verità, addirittura le indiscrezioni tenute a lungo nel gozzo. Tutti fanno cenni di assenso quando lui parla, tanti si scambiano sguardi d’intesa, come a dire: è un po’ suonato ma è un bel simpaticone.
Pratico sempre questa paura, che trovo legittima e onesta, ma devo ammettere che ultimamente mi sono convinto, a colpi di conferenze, discussioni, riunioni eccetera, che quel ciclismo che considero mio, e che dunque devo considerare anche datato, non solo ha sempre una sua presa, che potrebbe semplicemente nascere dal­la simpatia di tutti per tutti di cui è in linea di massima pervaso il mondo delle due ruote senza motore, ma ha una sua validità continua, assoluta (al punto che mi verrebbe da definirla: eterna). Insomma, ri­schio addirittura non solo di non dire troppe scemenze, ma anche di dire cose valide e be­ne accette pur se si tratta di critiche. In alcuni posti mi dan­no persino dei soldi, per rimborsarmi le spese di trasferta o addirittura omaggiare la mia prestazione, e mi sento insieme contento e imbarazzato.

Vengo al punto, anzi ad un punto. Facendo giornalismo sportivo dal 1953, e avendo anche tenuto la direzione di un quotidiano per quattro anni intensi e difficili e stimolanti, sono passato pure attraverso la pratica giornalistica di tanti altri sport, in primis anzi se volete in primissimis del calcio. Bene, quando vado a parlare di calcio non sempre riesco a dire tutto chiaramente, non sempre cioè trovo quell’intesa con il pubblico che è alla base di un sereno conversare, in cui io parlo mol­to e gli astanti parlano po­co ma per piazzarmi addosso domande che sono banderillas. Vero che quasi sempre a queste riunioni ciclistiche si mangia anche, e si mangia di regola meglio che in quella calcistiche (non so il perché, ma i fatti parlano, i sapori sentenziano), e dunque l’ambiente aiuta ec­come, ma davvero non penso che la questione sia riducibile ad un problema di materie pri­me commestibili, di salse e di cotture più o meno giuste. Esi­ste nel parlare di ciclismo una essenza diversa, speciale, superiore a quella che esiste nel parlare di calcio. Qualcosa che nutre meglio e che nutre più sanamente. Anche se si parla di doping.

Un giorno neanche lontano mi è addirittura accaduto di ricevere il grazie quasi quasi commosso di Fe­lice Gimondi - un campione, un amico -, dopo che avevo det­to che lo sport senza do­ping si spiega soltanto con l’assenza in esso di antidoping serio, e che di questo passo il ciclismo, ripulitosi con coraggio e senso del sacrificio, sarà in grado di negarsi ai Giochi olimpici perché troppo sporchi per lui (quando conosceremo la contabilità esatta dei controlli e delle positività a Pechino 2008?). Felice mi ha dato tanto quando ero corridore, compresa la sua disponibilità piena per un’intervista lunga, faticosa, serale la vigilia della conclusione del suo Tour vittorioso del 1965. Ero in de­bito con il campione e anche con l’uomo che un giorno, sollecitato da me al gioco del “co­sa fare se potessi esercitare, per una volta ed una cosa sola, un potere assoluto?”, mi disse che avrebbe usato la speciale bacchetta magica per tornare in­dietro nel tempo e poter chiedere scusa a tutti i tifosi con i quali, stanco, sfatto, teso, non era stato gentile al traguardo, addirittura (addirittura!!!!) arrivando a trattarli ma­luccio se ad esempio gli davano fortissime pacche sulle spal­le… Il mio debito dunque continua crescere, ed è bellissimo avere un debito sapendo che il creditore non solo non vuole che tu glielo paghi, ma spe­ra che il suo credito au­menti.

Chiudo con la rinuncia a cavare una morale dal mio eloquio presso il pubblico e magari da questo mio sproloquio per i lettori. Troppo facile dicotomizzare il mondo, chez nous tutto il be­ne, nel calcio tutto il male. E poi chi sono io per poter sentenziare? Al contrario del vecchietto del saloon, persuaso di emettere dogmi insieme con qualche sputacchio, io non di­co mai che i miei tempi, le mie cose, le mie fedi, le mie esperienze sono le migliori, o sono migliori di altre a cui mi vien bene contrapporle. No, io dico soltanto che si tratta di due co­se diverse, e però insisto perché la diversità venga riconosciuta. Poi ognuno scelga se ri­conoscerla all’insù o all’ingiù. Sono riuscito in Spagna a non sentenziare sul nostro e sul lo­ro prosciutto, e dire che da quelle parti lo straniero può ri­schiare il linciaggio se non am­met­te la supremazia del divino Jamòn Serrano Jabugo Pata Negra su qualsiasi Parma o San Daniele, volete che abbia paura in Italia a dire che il calcio e il ciclismo, come i prosciutti, sono diversi?
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