Di recente a un giornalista, per combinazione (o no?) quello che scrive queste righe, è accaduto di ri-incontrare, specificamente e non per avventura o consuetudine, due monumenti del ciclismo, cioè Fiorenzo Magni e Alfredo Martini, citati qui in ordine alfabetico e di età, visto che Magni compie gli ottantasette anni a fine 2007 e Martini invece a inizio 2008. Sono stati due professionisti della pedalata, internazionalmente grande Magni, preziosissimo specie per il ciclismo nazionale Martini, capace di fare il gregario-amico di Bartali, Coppi e dello stesso Magni. L’incontro è stato ovviamente forte dal punto di vista emozionale, avendo i tre un grosso mondo di passato comune da spartire nel gioco dei ricordi, utile fra l’altro al giornalista per metter nero su bianco un ulteriore ritratto dei due. Qui però il discorso vero vogliamo che sia un altro. Il discorso sulla persistenza, nel ciclismo, di icone che ad esempio il calcio non ha, e che però il ciclismo stesso non riesce a usare ad majorem gloriam suam, quasi che fosse frenato dal pudore, dalla paura di infrangere con la curiosità e la pubblicizzazione una vecchiaia di purissimo cristallo.
Probabilmente - in attesa che invecchino alla grande i Gimondi e i Motta, i Moser e i Saronni - quei due, Magni e Martini, non hanno concorrenza e neppure strascico. Via Coppi quasi cinquant’anni fa, via Bartali quasi dieci anni fa, non restano, per l’antiquariato, personaggi più preziosi ed epocali di Magni e Martini: il secondo colma, sul piano del personaggio, il gap nei riguardi di Magni, di lui assai più forte in sella, con la strepitosa attività di selezionatore azzurro della strada dei professionisti, sei titoli mondiali in ventitré anni, più sette secondi e sette terzi posti.
Frughiamo il calcio e di italiani troviamo soltanto, a livello così sommo, Enzo Bearzot, citì degli azzurri campioni del mondo nel 1982. Gli altri, o troppo piccoli o troppo giovani. Ci sarebbe anche Giampiero Boniperti, si capisce, ottant’anni nel 2008, ma lui stavolta è uscito di scena esplicitamente, non per sua naturale, celeberrima, famigerata ritrosia, è uscito perché allergico alla Juventus della Triade, e non ci torna anche se potrebbe facilmente, anzi all’assemblea degli azionisti bianconeri ha ringraziato pubblicamente l’avvocato Zaccone, quello che molti fans appassionati ma ciechi juventini esecrano perché ha detto che la retrocessione in serie B e una congrua penalizzazione erano decisioni non solo accettabili, ma giuste. Per capacità mimetiche personali Boniperti ricorda uno splendido orso, tutti sanno che se ne sta nel bosco, ma nessuno riesce a vederlo.
Fuori del calcio, c’è nell’atletica Livio Berruti che è stato un grandissimo: ma non è un vecchissimo, “deve” vent’anni a Magni e Martini. C’è Franco Nones dello sci nordico, c’è Celina Seghi dello sci alpino: personaggi enormi ma per intenditori. Idem anzi persin più glorioso, e però da élite intorno alla pedana e non da masse schierate per le strade, lo schermidore sommo Edoardo Mangiarotti, che sta sui novanta. Davvero icone come Magni e Martini sono uniche: così preziose, così antiche, così popolari.
Non si può dire, no, che il ciclismo quei due non li abbia, oltre che amati, usati, specie Martini che come tenuta da citì azzurro è stato un Magni moltiplicato per dieci. Ma anche in questo comportamento di uno sport verso i suoi sommi sacerdoti vediamo, da parte del ciclismo, pudori davvero tutti suoi nel proporli, se del caso nell’imporli. Quasi che si avesse il timore della loro grandezza. Troppo grandi, cioè per essere verosimili, anche se è fuori di dubbio che siano veri.
Sicuramente i due sono un po’ trascurati come icone, piuttosto sono esibiti come personaggi concreti, non idealizzati. Sicuramente i due non trascurano il ciclismo, anzi continuano ad amarlo. Il giornalista di cui sopra è stato comunque felicemente sorpreso perché quando ha detto ad alcuni addetti ai lavori genericamente sportivi che stava per andare dai due, ha scoperto la loro residua persistenza. Neanche il calciomane più spinto si è permesso di chiedere se quei due sono ancora vivi, mentre quando è morto, un anno fa, Piero Rava, grande calciatore della Juventus e della Nazionale, campione del mondo nel ’38, pochi sapevano che era ancora su questa terra, e quasi nessuno si era accorto che lui, campione olimpico a Berlino 1936, quando aveva vent’anni, era la più vecchia medaglia d’oro vivente del nostro sport.
Morale? Niente di niente. Semplici considerazioni di lavoro. E tanta soddisfazione nel rinnovare, attraverso l’incontro diretto, l’amicizia con Magni e Martini. Soddisfazione giornalistica? Non scherziamo: soddisfazione umana, di grana assai più preziosa.
hhhhhhhhh
Dottore, è grave? Sa, d’inverno mi prende voglia di ciclocross. Di quello di una volta, fangosissimo, sporchissimo, quando il maltempo era davvero maltempo. Vinceva tantissimo Renato Longo, che nel 1967 arrivava addirittura al suo quinto titolo mondiale. Poi c’erano i sei titoli di seguito, più uno in piena era Longo, di Eric De Vlaeminck, belga, fratello del celebre stradista Roger detto Monsieur Roubaix (un titolo mondiale di cross anche per lui), Eric di cui si riferivano periodici ricoveri in una clinica per malattie nervose.
Era molto bello quel ciclocross. Ti dava sempre l’idea perversa ma stimolante o almeno divertente che, se i corridori fossero andati a piedi, la bicicletta in spalla, avrebbero raggiunto velocità maggiori che non con i tubolari affondati nel fango colloso. C’era un solo stradista decisamente grande nel ciclocross, era tedesco, si chiamava Rolf Wolfshohl, una bella poltiglia di consonanti per due sole vocali, il cognome usciva sui giornali quasi sempre sbagliato, mutilato di un’acca, una elle.
D opo Longo 1967, trent’anni prima che vincesse il titolo massimo un altro italiano, Daniele Pontoni (bravo anche un Vagneur aostano, professore di matematica). Intanto però il ciclocross si era addolcito e spettacolarizzato, non per via del calante fachirismo dei suoi praticanti ma dell’avvento di una televisione che scrutava tutto e tutti, indulgendo in primi piani di visi dolenti e inzaccherati. Ma premevamo ormai alle frontiere del ciclismo da percorsi tribolati le biciclette “altre”, quelle di ET per un po’ di acrobazia, sino a quelle per la pratica del ciclismo di montagna, con il binomio inglese mountain bike violentato in italiano, muntan baich e via. E arrivava nel ciclismo un fango che non era quello del ciclocross, era quello del doping.
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