Un grande direttore di un grande giornale mi ha detto che uno di questi giorni (il che, considerati i suoi impegni, vuol dire uno di questi mesi) mi convoca a cena o addirittura a pranzo (per molti giornalisti il mezzogiorno a tavola quasi non esiste) e mi fa parlare di colleghi importanti e trapassati del giornalismo sportivo, visto che ne ho conosciuti tanti e bene, e che lui è rimasto sempre affascinato dal loro modo di vivere, di lavorare. L’ho incuriosito con rapidi accenni a Tizio e a Caio, grandi aedi, grandi maestri, decisamente più e meglio innamorati dello sport, e specialmente del ciclismo, che della grammatica e della sintassi. Con storie di doping nascosto e di dame bianche esibite, fatti e cose entrati nel fluire classico delle vicende ciclistiche, e subito sconvolgenti. L’ho anche coinvolto con storie di reportages ciclistici, così diversi da ogni altro reportage sportivo. Non certamente titolare di una sua passione personale per la bicicletta, mi ha comunque seguito assai di più quando parlavo dei campionissimi del pedale che dei campionissimi del pallone.
Io penso che la tutto sommato scarsa considerazione di cui il ciclismo gode (ma sarebbe meglio dire: soffre) nelle pagine sportive dei giornali politici, in assoluto o relativamente ai grandi favori di natura grafica che ottengono altri sport fortemente bischeri, nonché nelle pagine di giornali sportivi che sono in realtà fogli calcistici, paradossalmente può risentire proprio di questo atteggiamento tutto sommato cordiale, attento, incuriosito, interessato, estimatore, quasi devoto di chi sta nella stanza dei bottoni o ha comunque il potere di dare ordini sugli spazi da offrire a questo o a quello sport.
Il ciclismo è rispettato, insomma, è stimato, se non altro come palestra di fatica, di sofferenza: e dunque va sottratto al nuovo giornalismo voyeuristico, gossiparo, alle pagine con grossi titoli, insomma alla maggioranza dei giornali di adesso, alle loro attenzioni morbose. Ecco: il ciclismo viene penalizzato proprio perché è una faccenda seria, di quelle così serie e giuste e valide che sono date per postulato, non interessa che si realizzino, casomai interesserebbero se non si realizzassero. Il ciclismo avrebbe grandi spazi sui giornali e nelle radioteletramissioni se fosse sport decisamente fetente, se puzzasse sempre, di doping o di anacronismo, anziché nettarsi con bagni lustrali di folla entusiasta, di sudore prezioso, di buoni e caldi sentimenti antiqui. E quanto ai suoi cantori, la loro memoria, con annessa nostra riconoscenza, è forte e cara proprio perché si valuta cosa sono riusciti a scrivere pur essendo culturalmente nonché grammaticalmente sprovveduti. Li si consuma adesso come si consuma il pane conservato però riscaldato e sempre croccante.
Mi accorgo che quando dico Giro d’Italia i santoni di adesso, i padroni del nostro vapore si fanno attenti, quasi devoti: e mi piacciono assai in questa che in fondo è una loro dichiarazione di stima, se non di amore. E non importa che sul loro giornale offrano al Giro poco spazio: magari sono convinti di farlo terapeuticamente, perché sanno bene che lo spazio sui giornali (e alla televisione) non significa di questi tempi stima, valenza effettiva, valore vero, ma incitamento alla pazzia, quando non anche allo schifo. Ragion per cui meno si viene messi su una certa ribalta, una certa vetrina, meglio in assoluto è, anche se nel relativo si paga la mancanza di luce forte addosso alle proprie vicende.
Capisco che l’idea di un ciclismo che debba essere felice o quanto meno sereno perché mediaticamente non troppo seguito da una stampa che deve, impegnata in una lotta tremenda di sopravvivenza, seguire le cosacce anziché le belle cose sia un’idea difficile da accettare, masticare, digerire. Però è così, penso di averlo capito e credo di doverlo partecipare. E se poi il ciclismo, quando si vede sbattuto sulle prime pagine per storie di doping che riguardano eccome pure altri sport, può anche scocciarsi, la scusa è pronta: ti vogliamo bene, caro ciclismo, e proprio per questo quando tu ti comporti male ci ferisci, ci addolori, ci porti a diventare cattivi.
Forse sono andato troppo lontano, partendo dal desiderio o dalla curiosità di un grande importante giornalista di sapere come ci comportavamo alle prese con Coppi e la sua vicenda e da qui allargandomi a considerazioni che non riguardano lui, si capisce, ma tutto un ambiente, tutta una situazione. Ma davvero penso che il ciclismo viva presso i grandi giornali di informazione una situazione particolare. Cambiati i tempi da quando un maestro grande e tremendo di direzione giornalistica, Giulio De Benedetti de La Stampa, in redazione e in tipografia diceva ostentatamente Bartàli con l’accento tonico per scremare i suoi redattori, separare quelli che avevano il coraggio di segnalargli l’errore, ridicolo visto che milioni di persone gli insegnavano l’accento giusto, da quelli che prendevano a dire anch’essi Bartàli per andargli dietro, servili e compiacenti e ruffiani.
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