Rapporti&Relazioni
Riverenza per il calcio

di Giampaolo Ormezzano


Chiedo scusa ma mi calo nel personale. Credo di essere arrivato ad un punto della vita-vita - dico vita-vita e non vita di lavoro, non giornalismo - in cui il recupero di certe cose particolari, di certe esperienze tutte mie, e l’incastonamento di esse in una particolare cornice, su un particolare fondale di ricordi, di memorie più avere persino un’importanza per i lettori. Credo di contro che se mi soffermo sugli argomenti diciamo così comuni, vasti, popolari, non solo dico quello che dicono tanti, ma lo dico magari male, con approssimazione e imprecisione, perché non sono più un giornalista preciso, assiduo sull’evento, non posso e non voglio esserlo, nel senso che fisicamente (massì) non ho più quasi nulla da dare ed ho capito, almeno con un certo mondo, di avere poco da fare.

Per esempio l’uso di Calciopoli a pro del ciclismo. Ecco, penso che nel mondo della bici ci sia una sorta di paura nel rinfacciare al calcio certe cose, nell’assumere dignità e pudore anche per conto terzi. Come a dire: loro non sanno vergognarsi, se proprio non ne possiamo fare a meno vergognamoci un poco per loro, ma senza infierire, poverini, mica siamo dei maramaldi. Io ho una voglia matta di dire invece che Calciopoli è molto peggio che tutto il doping inflitto al ciclismo, è lo schifo degli schifi, io anzi lo dico e lo scrivo ma mi accorgo che quelli del ciclismo non hanno nessuna voglia di fare coro con me. Come se preferissero godere in futuro delle luci indirette ma presumibilmente eterne del calcio che non denunciare adesso il suo buio. Che tristezza. O anche Vallettopoli. Il calcio in qualche modo c’entra, di striscio, di rimbalzo, di passaggio, con un personaggio anche non di secondo piano, che sia Gilardino che sia Cassano che sia Pancaro che sia Trezeguet che sia Totti che sia Piripacchio. Il ciclismo niente. Se però dici che il calcio è un bello schifo anche come abitudini sessuali, che i calciatori dell’Hollywood fanno schifo, ti dicono che esageri. Ma porco Giuda, se in uno scandalo non c’è un ciclista che è uno, e ci sono invece tanti calciatori, noi che amiamo il ciclismo, o diciamo di amarlo, dobbiamo vergognarci di ciò?
E la cocaina? Il calcio ne è pieno, lo sanno anche i bambini. Ma noi del ciclismo non lo denunceremo mai a voce alta. Il calcio ci ha già fatto il piacere di prendere anche lui un po’ del nostro doping, di imitarci un poco, e adesso dovremmo massacrarlo perché è andato oltre?

Mio fratello (ne avevo due, me ne è rimasto uno) mi disse una volta, quando scoppiò a Torino uno scandalo di vasta eco concernente una casa di massaggi specialissimi per calciatori e vip della città: «È uno scandalo che nessuno della nostra famiglia sia invischiato. Non contiamo proprio nulla. I nostri figli e nipoti potrebbero chiederci conto di questo nostro non saper essere nell’attualità». Scherzava, ma intanto riproduceva un certo disagio che noi del ciclismo proviamo quando ci accorgiamo che i veri grandi scandali sono degli altri. Siccome non siamo più capaci di farci belli della nostra pulizia, sulla quale onestamente abbiamo dei piccoli dubbi, vorremmo almeno essere sporchi come gli altri, sporchi di polvere bianca e pagliuzze d’oro, non di banale fango dei poveri.

Va a finire che al Mostro Calcio invidiamo tutto: i soldi e la fama, le barche e la coca, le donne e persino i trans. Consci di questo, abbiamo almeno la dignità di non infierire su un mondo del quale, sotto sotto, vorremmo essere parte. E se è vero che mi è toccato orrendamente sentir dire, da un mio gemello di tifo calcistico, “speriamo che Moggi e Giraudo comprino la nostra squadra, così la faranno stravincere”, è ancora più vero che ho sentito dire che “il ciclismo avrebbe bisogno di un Moggi, che lo portasse fra la gente che conta”. Molti di noi scambieremmo cento metri di folla al Mortirolo con due posti in tribuna vip per il calcio all’Olimpico, e uno dei due posti occupato dalla nostra strafiga personale, guardatissima e pazienza se indagatissima.
“Scambieremmo”: ho usato la prima persona plurale. Ero partito da un me stesso diverso, finalmente capace di operare uno straniamento, e invece parlo anzi - peggio - scrivo come il complice che sono. Faccio sempre il giornalista, e cerco di fare il giornalista di successo.
hhhhhhhhhhhh

Presso il Toro Club di Sanremo ho televisto il mio Toro sconfiggere per 3 a 0 il Messina a Messina, ho gioito in mezzo a tifosi fratelli granata che mi hanno ospitato e mi hanno pure chiesto un pronostico per la Sanremo in programma di lì a qualche giorno. Ho fatto il giornalista furbetto, mi sono disperso nei soliti nomi italiani, poi con sforzo colossale ho detto anche Boonen e infine ho chiuso dicendo: oppure uno spagnolo. Il mio terrore, la mia vergogna, è che adesso da quelle parti ci sia uno che dice: il signore sì che se ne intende. Ho paura del facile, dell’ovvio, ho paura di essere preso sul serio. Avendo ascoltato una frase spavalda, ribalda del caro Dino Zandegù e avendola usata per un titolo che riuscii ad imporre al giornale, ecco che un mio articolo intitolato appunto “Oggi Zandegù vincerà il Giro delle Fiandre”, roba di Tuttosport del 1967, mi pesa addosso tatuandomi da veggente. D’altronde mandato anni prima dal giornale alla Parigi-Nizza, avevo avuto la fortuna di vederla dominata da un giovanotto belga, avevo pronosticato per iscritto questo Merckx vittorioso alla Sanremo, così fu, prima delle sue sette vittorie, e da allora persino lo stesso Merckx mi ha preso sul serio. Non vorrei rischiare di passare per competente di ciclismo presso i sanremesi tifosi del Toro: se ho azzeccato vagamente il pronostico è perché mi sono diluito in più ipotesi, ed anche perché il momento era magico, visto che fuori casa e per 3-0 il mio Toro di regola non vince mai.
E così finisco parlando di calcio un articolo (sempre in brutta prima persona singolare) in cui volevo parlare di non calcio.
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