Gatti & Misfatti
Chi ha vinto?

di Cristiano Gatti

Giro in bicicletta per fresche vallate e afose pianure, ma ovunque sento ripetere la stessa litania: basta, il ciclismo non lo guardo più. Così parlano, allo stremo della sopportazione, proprio i più accaniti amanti del ciclismo: i praticanti. Assisto a un fenomeno inverosimile: sempre più gente in bicicletta, mamme e zie comprese, sempre meno gente appassionata di grandi corse. Ripensandoci con calma, sotto la doccia, tornato a casa, arrivo ad una conclusione inevitabile: non c’è niente di inverosimile, è tutto tremendamente logico. Non poteva che finire così.

Non so quanto questa mia testimonianza, raccolta sulle strade comuni, tra italiani comuni, interessi agli addetti ai lavori dell’ambiente pedivella. Però insisto, la porto fino in fondo. Voglio sollevare un vero e proprio allarme, perché mai - e non è una battuta ad effetto - avevo respirato in giro tanta delusione e tanta disaffezione. Nemmeno all’epoca dello choc Pantani. Allora c’era rabbia, sconcerto, incredulità. Adesso è tutto molto peggio: c’è una rassegnata, cupa, esausta indifferenza. Guardiamolo: è un popolo in fuga, che non trova più un motivo per tornare indietro. Vogliamo parlare del Tour? Io non ci sono neppure andato, dopo tanti anni. E questa potrebbe essere soltanto una stupidaggine mia. Ma da quanto sento e da quanto vedo (leggi dati d’ascolto), mi pare che il resto del Paese abbia condiviso il mio penoso disinteresse. Soltanto il patologico orgoglio dei francesi può definire un bel Tour, finalmente attendibile, combattuto e pulito, il Tour 2006: per me, resta un mostro da incubo noturno. Però al contrario: l’incubo tiene svegli, quanto meno. Questo Tour no, era devastante: andava somministrato a schizzati e nevrotici. Dopo un quarto d’ora erano già stesi, come in beata anestesia.
Amici della bicicletta, che ci sta succedendo? Credo di poter rispondere così: la resistenza, la stoica ed eroica resistenza degli appassionati di ciclismo, è ormai finita. Troppe prove, negli ultimi dieci anni. Un crollo e una faticosa resurrezione. Un altro crollo e un’altra faticosa ricostruzione. Avanti così, per intere stagioni. Ogni volta che ci sembrava di poter finalmente rialzare la testa, illudendoci di respirare un’aria nuova, puntuale la bancata. Una volta va bene, due volte va bene, ma quando sono la regola diventano umanamente insopportabili. L’ultima, quasi inutile da ricordare: finiamo il Giro d’Italia celebrando il grande campione Basso, dopo tante epoche finalmente un campione forte in montagna e forte a cronometro, cioè ideale per il Tour, ed ecco anche lui abbattuto a colpi di intercettazioni. Tutti fermi, nessuno salti sulla sedia: non ho la minima intenzione di affrontare il caso. Già ci sono troppi ispettori Maigret in circolazione. Qui mi interessa sollevare una questione molto più preoccupante: quella degli effetti. Guardiamoci in giro: lo scandalo spagnolo è solo l’ultimo di una lunga serie, neppure il peggiore, tuttavia ha prodotto più danni della grandine. Si respira aria di soluzione di finale. Come una Hiroshima del nostro sport preferito.

Vorrei persino chiedere scusa. Non ho macchie di doping, ma in qualche modo avverto imbarazzo pure io: per le cose che ho scritto, per gli aggettivi che ho usato, per le passioni che ho coltivato. Ogni volta mi sono ritrovato nella scomoda parte del babbeo. Adesso mi vedo davanti un ipotetico lettore, neanche tanto feroce, però con la faccia un po’ così, che amabilmente mi chiede: ma quante bischerate mi hai raccontato, nella tua vita, o scribacchino della malora? Cosa posso rispondere, a questo mio scocciato interlocutore? Niente. Riesco solo a stare zitto. Posso solo assicurarlo che avverto lo stesso schifo, la stessa delusione, la stessa rabbia. La stessa umiliazione. Io, prima ancora che me lo dica il lettore, mi sento così: un po’ pirla. In un angolo segreto, l’ultimo rimasto sgombro dalle macerie, coltivo solo un sogno residuo, come un’infantile illusione: che un giorno Ivan Basso, l’ultima delle mie passioni, dimostri inequivocabilmente d’essere un campione pulito. Allora sì, se ne potrebbe riparlare...

Nell’attesa, sgomento e desolazione. Il nostro sport vive la sua crisi più spaventosa. Non so proprio come ne uscirà. Per il momento, so solo come ci è entrato. Non servono analisi prolisse, non servono grandi indagini sociologiche. Quella è tutta roba che lascio volentieri ai solerti esperti dei sondaggi e del marketing, che magari verranno a raccontarci quanto invece sia affascinante questo ciclismo pulito ed equilibrato. Io mi limito a un’estrema sintesi: come tante cose del nostro simpatico Paese, il ciclismo è finito nella palude per lo svacco totale della moralità. Questo è un settore dove si parla da anni di valori, fermando però la discussione a quelli ematici. Senza alzare mai la testa, senza mai sfiorare quelli superiori. Non voglio fare paternali, perché i saccentoni e gli scafati sono subito pronti a dimostrare che l’etica e la morale sono cose per signorine. Loro, muscolari e senza scrupoli, che hanno capito come va il mondo, che sanno come gira il giradischi, in una parola che sanno vivere, sono gli stessi che ad ogni scandalo si sono aggrappati ai cavilli, ai ma, ai se, ai però, fornendo alibi e giustificazioni, precipitandosi ad ingaggiare subito i corridori licenziati dai colleghi, finendo per indirizzare il ciclismo verso una deriva di sporcizia, di ambiguità, di chiaroscuro, senza regole e senza rigore. Difficile dire di chi sia la responsabilità personale: ormai siamo al clima generale. Il degrado si respira. Senza che nessuno avverta più la scossa dell’indignazione. Se Auro Bulbarelli, in una tranquilla tappa dell’ultimo Tour, dice tranquillamente in diretta che il corridore Tizio “avrà sicuramente già comprato” il corridore Caio, “cosa dici Davide, quanto gli avrà dato, almeno duemila euro?”, ecco, se il telecronista ufficiale della televisione pubblica racconta amabilmente così il ciclismo, dopo averlo raccontato sempre così, come un gioco tra biechi biscazzieri, anche nella mitica tappa del Mortirolo dell’ultimo Giro, senza minimamente avvertire il senso dello sfascio e dello scandalo di un certo frasario, mi chiedo: che cosa dobbiamo concludere? Che cosa dobbiamo aspettarci? Che cosa possiamo sperare? Credo di poter rispondere solo così: quando in un ambiente, o in un periodo storico, viene a mancare il piacere dell’onestà, tutto precipita verso il basso. Il male vince sul bene. Il farabutto prevale sul limpido. Solo una domanda: guardandoci attorno, chi ha vinto nel ciclismo?
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