Scripta manent
Gaul e il bambino

di Gain Paolo Porreca

Charly Gaul, il campione lussemburghese da poco scomparso, e quel bambino sarebbero diventati grandi insieme, il pomeriggio dell‚ 8 giugno 1956. Sul Bondone, al Giro d’Italia: l’uno nella tempesta perfetta che avrebbe segnato la sua ascesa alla gloria ed alla maglia rosa, l’altro nella disperazione senza quartiere che gli arrecava la contemporanea sconfitta del suo ciclista prediletto Pasquale Fornara, che proprio in quella frazione conosceva la resa più amara della carriera.

Già, Charly Gaul, il ciclista dagli occhi di angelo, e quel bambino che allora lo aveva odiato come un nemico ed un giorno l’avrebbe poi dovuto così naturalmente amare, per il ricordo che gli evocava: e sempre egualmente dal più profondo del cuore.

Quel bambino, e le sue lacrime, me le ricordo ancora: come la stanza da pranzo triangolare ed una radio marrone chiaro, con le manopole color cioccolata, e le notizie disturbate, Italo Galliano o Adone Carapezzi o Enrico Ameri, che testimoniavano in diretta la difficoltà atmosferica di quella giornata...
E quel Fornara da Borgomanero, in maglia rosa, che nella Merano-Trento resisteva a stento sul Rolle, forse pure sul Falzarego, nomi decantati come arie d’opera, e poi si sarebbe dissolto nella neve del Bondone: così come Astrua, come Defilippis, come Bahamontes. E non come quel Charly Gaul lì, quello che nasceva e diventava grande, una stalattite in un sol giorno allora, a ventitré anni.

Ed il bambino che si disperava, non comprendendo come nella vita ci potessero essere d’un tratto stravolgimenti tanto grandi, per quanto pure nella cifra modesta del ciclismo che era il suo primo parametro di esperienza. E come a tre giorni dalla conclusione, nell’arco di una frazione sola, Fornara potesse perdere un Giro già vinto e Gaul, che veniva da un modesto ventiquattresimo posto in classifica, potesse invece stravincerlo.
Le lacrime amare di quel bambino, sei anni ma già tanta Gazzetta in cuore, anticipando il tempo fisiologico della lettura, erano anche il dolore di una abituale incomprensione familiare: il padre e la madre che giustamente lo invitavano a calmarsi, a non piangere per siffatte sciocchezze, che nel mondo c’erano ben altri guai, come l’invasione dell’Ungheria forse, e che il giorno dopo bisognava andare a scuola, altro che Fornara e Gaul.
E che forse il mattino dopo -dopo il riposo notturno -avremmo letto sul Roma la vera storia, e chissà anche una verità diversa, quella scritta da un loro amico caro, inviato alla corsa: Franco Scandone, elegante giornalista napoletano che ad un tempo scriveva anche per il Giornale di Sicilia ed il Gazzettino di Venezia. Senza il coraggio di ribadire che la vita è solo un ordine di arrivo, insensibile ai sentimenti.

Diventati grandi insieme, per un sentimento di segno così totalmente diverso, Gaul e quel bambino, si sarebbero incontrati tanti tanti anni dopo, un giorno all’improvviso. Avrebbero infatti spinto insieme, forti della loro diversa solitudine, il primo scalatore degno dei propri sogni comuni: Marco Pantani. Fino alla fine delle sue salite terrene. Come fosse una biglia di vetro. Proprio come quella biglia di vetro, con inciso il nome di Gaul, che resta gelosamente nascosta, finalmente in pace con Fornara ed il ricordo, nel cassetto più intimo dei dolori e delle gioie.

Gian Paolo Porreca, napoletano,
docente universitario di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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