Realini, dall'Abruzzo alla conquista del mondo

di Nicolò Vallone

Il ciclismo femminile italiano d’inizio 2023 sta tutto in una fo­tografia: Elisa Longo Bor­ghini taglia per prima il traguardo allo UAE Tour sabato 11 febbraio mano nella mano con una giovane e minuta compagna, che arriva seconda ma esulta più di lei. Il suo nome è Gaia Rea­lini, pescarese, classe 2001.
Il biennio 2021-22 l’ha incoronata campionessa d’Italia Under 23 di ciclocross con la Selle Italia Guerciotti Elite, men­tre su strada ha fatto top ten ai campionati italiani Élite, agli Europei U23 e in quattro tappe del Giro Donne con la maglia della Isolmant Premac Vit­toria. Un profilo da scalatrice che l’ha portata quest’anno a entrare nel World Tour nientemeno che con la Trek Segafredo.
Che dire, Gaia: bell’inizio!
«Dire che mi trovo bene in questo squadrone è dir poco. Prima di trasferirmi qui avevo un po’ d’ansia: “Con questo salto di qualità avrò più pressioni, mi si chiederà molto di più” pensavo e invece no. Anzi, col senno di poi, a volte avevo più ansia nelle squadre più piccole. Mi sento totalmente a mio agio, dobbiamo pensare solo a pe­da­lare e possiamo affrontare molto me­glio le gare. Gare che sono un po’ di più, certo, ma facevo tanti giorni anche nelle altre categorie: qui aumenta so­prattutto il livello, affronti le migliori al mondo».
Ci par di capire che l’impatto col World Tour tu non l’abbia sentito minimamente.
«Magari mi capita di chiedermi cosa ci faccio qui, penso “siamo sicuri che sia proprio io questa?”: oltre che fisicamente, sono piccola anche in questo me­stiere. Però poi mi dico che se la Trek Segafredo mi ha preso è perché qualcosa ho dimostrato. La difficoltà maggiore per adesso è la lingua: abbiamo l’obbligo di parlare tutte in inglese tra noi, pure tra connazionali di altri Paesi, e io non lo parlo bene. Ci sto lavorando».
E le compagne straniere dai nomi altisonanti non ti mancano: Van Dijk, Van An­rooij, Spratt, Deignan, Klein, Chap­man, Brand...
«Non mi hanno mai messa né in soggezione né in disparte, non si danno arie e hanno fin da subito provato a parlarmi semplicemente e lentamente per integrarmi nei loro discorsi. Lo staff inoltre ha deciso di non mettermi mai in camera con le altre italiane, per agevolare il mio imparare l’inglese. A tal proposito ho legato tanto con una ra­gazza che ha 21 anni come me, Elynor Backstedt: eravamo in stanza insieme in ritiro, lei da paziente madrelingua mi faceva venti minuti di conversazione in inglese prima di dormire, con fo­cus sulla terminologia tecnica. Ho scoperto parole di cui non conoscevo l’esistenza!».
Di Ilaria Sanguineti e le due Elise cosa ci dici?
«Chiaramente con loro tre c’è un bel rapporto, magari con Ilaria ho un po­chino di confidenza in più perché l’ho incontrata spesso nelle corse in Italia. La Longo Borghini la vedevo in tv e mi chiedevo “Diventerò mai come lei, po­trò correre le gare come lei?”»
Finché ti sei ritrovata a tagliare un traguardo vittorioso mano nella mano con lei.
«Guarda, se ci ripenso è una cosa an­cora irreale: negli ultimi metri mi è venuto spontaneo dirle in abruzzese “me vè da piagne” (mi viene da piangere) e lei ha sorriso affettuosa e divertita. Appena dopo l’arrivo ho sentito i miei e ho detto “se è un sogno non svegliatemi”».
Avresti voluto che ti lasciasse la vittoria?
«Quando sul Jebel Hafeet ci siamo ri­trovate da sole, dall’ammiraglia han­no cominciato a dirci che Elisa avrebbe pre­so la maglia di leader anche se avessi vinto io. Tuttavia noi eravamo indecise, con gli abbuoni eravamo lì lì. So­no stata io stessa a dire “già sto vivendo una favola con questa tappa, vince Elisa punto e basta, non m’interessa cosa diranno gli altri”».
E “gli altri” hanno detto e soprattutto scritto parecchio: sono piovute critiche su Longo Borghini e Trek Segafredo per non averti fatta vincere.
«In una bellissima giornata di ciclismo, alcuni hanno preferito lanciarsi in accuse senza sapere come fossero andate le cose».
Voi atlete leggete articoli e commenti che vi riguardano?
«Certamente. Io ho imparato a fregarmene di certi comportamenti incommentabili su social e siti. La gente ten­de a elogiarti solo quando fai ciò che per loro è giusto: si passa dal “che brava” al “che schifo” troppo facilmente. Ho imparato a tenermi stretti solo coloro i quali saranno sempre con me nel bene e nel male: la mia famiglia.»
Da chi è composta?
«Papà Giacinto, mamma Marilena, mia sorella maggiore Giada. Se sono arrivata fin qui è grazie a loro, mi hanno sem­pre sostenuta senza impormi nulla: hanno fatto grandi sacrifici a spese proprie per farmi correre. Ricordo quei weekend insieme a mio padre per an­dare alle gare di ciclocross da ragazzina: due bici, idropulitrice, cavalletto, tutto quanto nel Qashqai; lui che mi faceva da meccanico col poco che sapeva, altrimenti ci arrangiavamo chiedendo aiuto a squadre più strutturate. Tutt’oggi la cosa più bella del tornare a casa tra una corsa e l’altra è il ritrovarli: non sono fidanzata, ho amici e amiche con cui amo uscire in compagnia (senza troppe baldorie) ma non una migliore amica. La mia famiglia rappresenta tutto per me. Ol­tretutto, con Gia­da che la­vora in ambito culinario, so­no in ot­ti­me mani!»
Familiari a parte, chi sono sta­te le persone più im­portanti nel tuo percorso ciclistico prima di imbatterti in Luca Guercilena e Paolo Slongo?
«Il mio punto di riferimento è Do­menico Cerasi, colui che mi ha cresciuta ciclisticamente. Poi Francesco Ma­scia­relli, a lungo mio preparatore, ma insieme a lui va estesa la menzione a tutta la sua straordinaria famiglia. Michelangelo Dorangricchia e Stefano Bur­gassi sono invece quelli che mi hanno tranquillizzata e persuasa a non abbandonare l’attività su strada quando ero convinta di non volerla fare più. Infine Giovanni Fidanza, uno che nelle squadre non si trova facilmente: spesso i direttori sportivi vogliono e pretendono, ma con le pretese non si va tanto lontano. Se direttori sportivi e famiglie ti stressano e caricano troppo di aspettative, il rischio è di trovarsi a dire “chi me l’ha fatto fa­re” e decidere di smettere. Giovanni è stato un maestro di vita, mi ha infuso sicurezza e ha puntato su di me. E in generale, ho avuto tantissima fortuna a non avere mai subito pressioni eccessive.»
Ci racconti allora fin da principio il tuo percorso nel ciclismo?
«Ho iniziato a 7 anni da G2. Ve­devo mio papà che si teneva in forma nel weekend andando a pedalare con gli amici, e la bicicletta mi incuriosiva. Al che mio zio Pep­pe, cognato di pa­pà, che era vigile del fuoco e aveva come collega Ce­rasi, gli chiese di poter portare sua nipote Gaia a provare nella sua scuola ciclismo. Da lì tutto eb­be inizio. Ho fat­to Giovanissimi ed Esor­dienti nella Amici della Bici, dopodiché ho fatto una scelta “di rottura”. Per il primo anno da Allieva ho deciso infatti di non fare strada e darmi agli sterrati: in estate mountain bike nella Protek di Antonio Petrucci, in inverno ciclocross col Team Masciarelli. La MTB non mi è piaciuta molto, il cross sì, e il 2° anno l’ho svolto interamente in Masciarelli alternando strada e CX. Sono poi passata nella Vallerbike di Do­rangricchia e Burgassi, con France­sco Masciarelli sempre a farmi da preparatore. Ho trascorso nella squadra toscana due stagioni Juniores e uno da Under 23, finché nel 2021 sono andata in Isolmant Premac Vittoria per la strada e nella Selle Italia Guerciotti diretta da Vito Di Tano per il ciclocross.»
Ecco entrare in scena Fi­dan­za.
«Lui mi ha detto subito “farai il Gi­­ro d’Italia fem­minile”. Sono rimasta a bocca aperta. Col sen­no di poi, è sta­to il momento decisivo per l’evoluzione del­la mia carriera. Ho cambiato la mia preparazione, sempre con Masciarelli a se­guirmi, in funzione del Giro. Quell’edizio­ne 2021 della Corsa Rosa è stata la mia vetrina come scalatrice e al mio procuratore Fabio Perego so­no iniziate ad arrivare le prime proposte: a ottobre ho firmato con la Trek Segafredo, con l’accordo di rimanere in Isolmant nel 2022 e approdare nel World­Team nel 2023.»
Una conseguenza del passaggio in Trek è sta­to l’abbandono del tuo amato ciclocross.
«La squadra mi avrebbe concesso tranquillamente di continuare col cross, però ho ragionato con me stessa e sono giunta alla conclusione che mi trovavo davanti a un bivio. Io infatti sono una che, se non può fare una cosa dando il 100%, evita di farla. E con un’annata su strada che sarebbe stata più intensa e sarebbe iniziata più presto rispetto a quanto ero abituata, se avessi continuato con entrambe le discipline non sarei riuscita a dare il massimo in nessuna. Dovendo allora scegliere, e avendo ricevuto un’opportunità così grande con la Trek Segafredo, mi è venuto naturale rinunciare alle 6-7 ore di viaggio ogni domenica per le gare di cross e concentrare tutta la preparazione invernale sul­la strada. A prescindere dalla bella prestazione negli Emirati Arabi, non me ne pento.»
Sappiamo bene che sei una ragazza che non ama guardare a lungo termine: al momento fin dove la tua “linea d’orizzonte”?
«Mi godo il febbraio trascorso con UAE Tour e Setmana Valenciana e penso alle due gare di marzo: Trofeo Oro in Euro e soprattutto Trofeo Binda. Di altre successive non abbiamo parlato ancora.»
In questo tuo presente professionistico è presente anche l’università?
«Mi sono fermata alla maturità scientifica sportiva. Ho superato tutto senza intoppi, però ai libri preferisco decisamente la libertà e l’aria aperta: proseguire gli studi non faceva per me. Do tutta me stessa nel ciclismo e lo farò finché la passione mi terrà viva la vo­glia di “sacrificarmi” su una bici. Do­podiché, mi rimboccherò le maniche.»
La tua passione riguarda anche il ciclismo visto in tv?
«Assolutamente no, guardare le corse in tv mi annoia. Mi piacciono giusto gli ultimi 10 chilometri, ma solo se si ac­cende l’adrenalina in salita.»
Un’adrenalina che Gaia Realini infiamma con le sue scalate. “Nella botte piccola sta il vino buono” ha scritto lei su Instagram il 10 gennaio: avere solide consapevolezze ed esprimerle con fresca leggerezza è decisamente un’ottima base per far fermentare entusiasmo e risultati.

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