Balleini: «Remco? Ve lo racconto io»

di Giulia De Maio

Davide Ballerini era già abituato ad avere in squadra il campione del mondo, an­che se Evenepoel ed Ala­philippe a suo dire sono molto diversi. Il 28enne comasco, prof dal 2016, a Wollongong non è riuscito ad esprimersi come avrebbe voluto però ha potuto gioire per il compagno di club, che con una “azione alla Remco” ha sbaragliato la concorrenza e meritato la maglia iridata.
Tornato alla vittoria nella quarta tappa del Giro di Vallonia, successo che gli mancava dalla Omloop Het Nieuws­blad 2021, il brianzolo della Quick Step Alpha Vinyl la scorsa estate si era allenato a Livigno proprio in compagnia del belga vincitore della Vuelta e del mondiale. Il brianzolo, con un passato da nuotatore e bagnino, ha ancora un paio di cartucce da sparare per raddrizzare un’annata per niente semplice.
In questa stagione è stato rallentato dal covid prima del Tour de la Pro­ven­ce, quindi l’influenza gli ha fatto saltare la Sanremo, è caduto alla Freccia del Bra­bante, ha forato alla Roubaix nella Fo­resta di Arenberg mentre era in fu­ga. Protagonista al Giro d’Italia nel treno di Mark Cavendish - a proposito di campioni del mondo - dopo le ultime corse con il Wolfpack potrebbe indossare nuovamente la maglia azzurra per il mondiale gravel.
Nella sua cameretta, fin da quando era bambino, ha sempre avuto un unico poster: Franco Ballerini in trionfo alla Roubaix. Non ha nessun legame di pa­rentela con l’indimenticabile CT ma ha sempre avuto la sua stessa passione per le corse del nord e sogna un giorno di portarsi a casa l’iconico blocco di pavè in palio all’Inferno del Nord. In attesa della pietra più preziosa chissà che non gli regali qualche bella soddisfazione la ghiaia che lo attende domenica 9 ottobre in Veneto.
Da un mondiale all’altro. Che voto ti dai per la prova in linea disputata in Au­stralia?
«6. Pensavo di essere più in condizione, ma la caduta alla Vuelta Burgos mi ha lasciato qualche strascico e non so­no riuscito a dare il massimo. La no­stra Nazionale si è ben comportata, il ct Bennati ha schierato una squadra molto giovane, con tanti debuttanti, che hanno dimostrato di essere all’altezza della situazione. Alla vigilia si diceva che non avevamo grandi corridori su cui contare, ma in strada abbiamo dimostrato il contrario. Lorenzo Rota avrebbe meritato una medaglia, un riconoscimento che avrebbe premiato il lavoro di tutta la Nazionale. C’è mancato poco».
Bennati in ammiraglia come se l’è cavata?
«Ha creato un bel gruppo e avendo smesso da poco di correre riesce a ca­pire come viviamo noi atleti l’avvicinamento, sa dire la frase giusta quando siamo sotto stress e pressione. In gara non abbiamo potuto comunicare come volevamo perché eravamo senza radioline. Usandole tutto l’anno, a mio avviso non ha senso farne a meno al mondiale così come al campionato italiano (visto che ai Nazionali negli altri Paesi per di più le utilizzano), io in gara mi sono ritrovato in più occasioni a cercarla in automatico. Rappresentano una comodità sia per noi che per chi c’è in macchina, che guardando la corsa dalla tv può capire dinamiche che nella concitazione della corsa possono sfuggire. Da corridore ti permettono di avvisare di eventuali forature o guai meccanici, di sapere con esattezza quanti uomini so­no andati all’attacco, di raggrupparti velocemente con i tuoi compagni e sentire come stanno senza doverli cercare in mezzo al gruppo. I tempi che leggi sulla lavagna non sono esaustivi e im­mediati quanto le informazioni che ricevi via radio».
Il tuo secondo mondiale tra i prof è stato...
«Una grande emozione perché vestire la maglia azzurra è sempre un onore, anche se chiudi 63° a 6’11” dal vincitore. Pensavo di avere una condizione differente, ma non ho nulla da recriminare perché ho fatto tutto come dovevo e ho cercato di dare il mio contributo. Dopo le edizioni 2015 e 2016 tra gli Un­der 23, nel 2021 al debutto in un mondiale con i professionisti per me fu un giorno maledetto perché sono caduto insieme a Trentin e ho dovuto archiviarlo immediatamente. Questa volta è andata meglio anche se il quinto posto di Matteo ci va un po’ stretto. La sfida iridata è sempre difficile da interpretare, per chiunque. Non basta andare forte, devi avere anche fortuna. Pren­diamo Wout Van Aert che da due anni parte tra i favoriti e non è ancora riuscito a conquistare il titolo».
Bisogna avere la giornata perfetta, come è successo ad Evenepoel.
«Esattamente. Avevo messo in conto che potesse farcela, ma non avrei scommesso su di lui al 100% perché in una prova di un giorno può succedere di tutto. Nella riunione di venerdì avevo avvisato tutti che avrebbe attaccato da lontano, come nelle Fiandre, ma che riuscisse a portare in porto la fuga era molto difficile perché sulla carta il percorso non era disegnato per lui. Era più adatto a Van Aert o al Van der Poel di turno. Il Belgio però aveva due assi nella manica e se li è giocati alla perfezione. Remco ha fatto un numero impressionante. Non ho ancora avuto tempo di guardare la registrazione del­la corsa, ma quando l’ho visto nei pri­mi chilometri di gara mi ha impressionato la sua gamba bella piena. Non lo incrociavo dal ritiro a Livigno e mai lo avevo visto con i muscoli così definiti».
Era imbattibile?
«Era il suo giorno, come l’anno scorso nelle Fiandre nulla si poteva fare contro un Alaphilippe che ha attaccato 10 volte negli ultimi 10 chilometri. Quan­do hai di fronte avversari così talentuosi e determinati c’è poco da inventarsi. Ha colto tanti di sorpresa. Io mi aspettavo attaccasse da lontano, ce l’ha nel DNA, gli piace muoversi presto e si esalta quando vede aumentare il suo vantaggio. È assurdo pensare che po­trebbe correre ancora con gli Under 23, lo avesse fatto sarebbe scattato al primo chilometro come faceva da ju­nior e sarebbe arrivato da solo, visto che già tra i professionisti è stato irraggiungibile. Ha tagliato il traguardo con 2’30”, dietro è successo di tutto, ma non si poteva riprendere. Quando ho letto il distacco mi è scappato un “Eh la Madonna” e nella chat di squadra gli ho scritto: Cha­peau!».
Lui da Wollongong ha portato a casa una medaglia d’oro, tu?
«Due piccoli peluche a forma di canguro per le mie nipotine Lara ed Elena, una calamita per mamma Silvana e pa­pà Fabio, un boomerang da attaccare nella mia casa di Vacallo, nel Canton Ti­cino. Remco in valigia si è messo la maglia più bella di tutte, che insieme alla gloria comporta anche tante pressioni. Da quello che ho sentito raccontare, dallo stesso Alaphilippe con cui ho trascorso più tempo rispetto a Rem­co, di sicuro non è facile sfoggiare l’iride per un anno intero. Non ho mai provato quest’emozione e mi piacerebbe un giorno viverla sulla mia pelle, ma è chiaro che ti mette costantemente sot­to i riflettori. Remco in realtà è già abituato ad esserlo fin da piccolo quindi dovrebbe essere in grado di gestire le ulteriori aspettative che il Belgio e tutto il mondo nutriranno ancor di più nei suoi confronti».
Per il terzo anno di fila il campione del mondo è un uomo Quick Step.
«Ne sono contento, è un piacere avere in squadra il numero 1 del movimento. Julian è una grandissima persona e per due stagioni ha onorato la maglia iridata, Remco dopo il brutto infortunio ri­mediato al Lombardia il giorno di Fer­ragosto del 2020 e al termine di una stagione da incorniciare se l’è meritata, eccome. È andato forte tutto l’anno, quasi nessuno si aspettava vincesse la Vuelta, compreso io, il titolo mondiale è la ciliegina sulla torta per lui e tutti noi. Come per Alaphilippe è stimolante averlo come compagno di squadra. Nono­stante sia più giovane di me, imparo anche da lui. È un grandissimo esempio, ha un carisma impressionante e una determinazione fuori dal comune».
Cos’ha di speciale?
«È molto determinato e consapevole dei suoi mezzi. Aven­do calendari di­versi non ho avuto tante occasioni per gareggiare con lui, ma le poche volte che eravamo al via insieme partiva sempre per vincere e di frequente ci riusciva. Oltre alle innegabili doti fisiche è la sua mentalità a renderlo un campione. Vede sempre il bicchiere mezzo pieno, non l’ho mai visto giù di morale e come Fabio Jakobsen è tornato più forte di prima da un terribile in­fortunio perché ha quella grinta che hanno in pochi. Dall’esterno può sembrare scontroso, ma in realtà è un compagno con cui si può ridere e scherzare, anche se quando si allena fa maledettamente sul serio. Loulou è una te­sta matta che ha energie da buttare via, Remco è più tranquillo e non lascia nulla al caso. Nonostante sia il più giovane, Remco è già ben inquadrato. In ritiro alla sera non resta a chiacchierare fino a tardi, va a letto presto, e la mattina successiva mentre Julian canta e suo­na la batteria con i bicchierini del caffè, lui è decisamente più composto e silenzioso».
Raccontaci un episodio che ci faccia capire che tipo è Remco.
«Nel 2020 al primo ritiro post covid ci siamo allenati insieme in Belgio per una settimana, simulando il ritmo gara e divertendoci, un giorno avevo tentato un attacco con lui e avevo fatto fatica a stargli a ruota. È impressionante. A posteriori è semplice dire che Bet­tiol, Trentin o qualcun altro di noi avrebbe dovuto seguirlo, ma se lo avessero ri­preso poi con chi avremmo sprintato? Avevamo un piano e lo abbiamo rispettato. I compagni deputati a controllare la fase di gara in cui si è mosso hanno fatto il loro e lo hanno fatto bene con Rota che per poco non si è messo al collo una medaglia».
Hai avuto modo di festeggiare con Remco?
«No, l’ho visto solo in aeroporto il giorno dopo. Lui ha preso un volo che faceva scalo a Dubai, noi per Abu Dha­bi. Dopo Coppa Bernocchi e Gran Pie­monte che disputerò nei prossimi giorni e il suo matrimonio, sicuramente avremo modo di riunirci con la squadra e di fare un brindisi al nuovo campione del mondo. Abbiamo già fissato un miniraduno in chiave 2023, a cui spero di arrivare in ritardo perché vorrebbe dire che avrei partecipato al pri­mo mondiale gravel della storia. Stiamo cercando di incastrare il tutto, io ci spero perché sarebbe senz’altro un’esperienza divertente. Per me il gravel è un mondo nuovo, ma amo il fuoristrada e mettermi alla prova. E poi è un mondiale...».

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