Una domanda etica dopo avere seguito tanto Giro d’Italia in televisione: conviene al ciclismo mandare avanti le sue teletrasmissioni in maniera ortodossamente sportiva, cioè parlando della corsa e basta, anzi sottolineando che si parla della corsa e basta, oppure gli conviene approfittare di una certa audience forte per allacciarsi anche al resto del mondo (e non diciamo soltanto del mondo dello sport) con pretesti assortiti? Al Giro, che quest’anno non era concorrenziato da nessuna grande lunga manifestazione calcistica, c’era il cosiddetto contorno, da Paolo Belli in su o in giù (dipende dai punti di vista) e ovviamente c’era pure la corsa. Siccome abbiamo sentito, nei giorni del Giro, gente qualunque canticchiare la canzone di Paolo Belli - a parere di chi scrive brutta ancorché efficace, per non dire efficace e quindi brutta, ma questo non significa niente - ci è venuto da pensare che l’evento potrebbe proporsi e irrobustirsi anche con un uso intensificato dei fattori esterni, dei fattori circostanti, insomma di quella cosa che una volta si chiamava colore e non era soltanto il colore della corsa.
Non è una domanda da niente, è semplicemente una domanda vitale, considerando l’importanza vitale dell’arte di apparire. Può essere una domanda teorica, ecco, nel senso che tanto decidono quelli che stanno in alto e però (o perciò) di ciclismo non capiscono niente. Ma porsi la domanda e cercare una risposta appartiene alla cosiddetta morale deontologica, è un esercizio etico al quale non intendiamo sottrarci, per amore del ciclismo e per rispetto di noi stessi.
Dunque andiamo avanti. Il ciclismo si è presentato al Giro d’Italia n° 88 non solo senza Cipollini che ha lasciato proprio alla vigilia, lasciato nel senso di chiuso definitivamente (salvo ripensamenti: niente al mondo è impossibile, fuorché rimettere il dentifricio nel tubetto), ma senza avere biecamente però efficacemente sfruttato bene, di Cipollini, anche il momento, il rito dell’abbandono. Una pedalatina in costume rosa fosforescente sul lungomare di Reggio Calabria è un po’ poco, e quanto al Cipollini che sicuramente, presto o tardi, la televisione dello spettacolo ribaldo aggancerà, sbattendolo su un’isola dei famosi o chissà cosa di simile, dubitiamo che possa essere utile al ciclismo (e forse neanche al cittadino Cipollini, ma questo è un altro discorso).
Il ciclismo di questo ultimo Giro è stato almeno programmaticamente - poi è chiaro che giocano le considerazioni particolari della giornata, del momento - meno ricco, o più povero, o meglio equilibrato, quanto a commistioni fra ciclismo e mondo esterno. Ma è stato comunque un cocktail. E noi qui ci chiediamo se vale la pena sacrificare un whisky di marca da nobili scozzesi, un rum sublime da grandi femmine cubane, un gin deciso da spavaldi bucanieri, per mescolarlo con rosolio, kummel, succo d’arancio, angostura, vermuth rosso, zucchero di canna, succo d’ananas, limone caraibico e altre cose e cosacce, perdendo il gusto originale e proponendo chissà quale gusto.
Bene, il lettore paziente e amico (se è arrivato sin qui…) ha capito che siamo per un teleciclismo sempre ciclistico, contaminato il meno possibile e casomai contaminato dalla cronaca imprevedibile, che lo contatta, lo tocca, lo avviluppa, lo penetra, non certo contaminato dalle cose che lui stesso si programma addosso, si fabbrica dentro in chiave di vetrinismo, accalappiandole o prendendole in prestito dal mondo esterno con iniziative che possono anche essere avvilenti, servili. Siamo per teletrasmissioni ortodosse, tecniche, serie, a costo di sfiorare, ogni tanto, la noia: ma è la noia sana di chi sta sempre e comunque in pineta e gode una sorta di sbronza felice di aria pura.
Abbiamo paura delle contaminazioni, che spesso si inquinano e diventano aggressioni. Abbiamo paura della bellona telefamosa che al traguardo dice due cretinate, si professa amica calda della bici e non vede l’ora di salpare, sulla sua automobilastra, verso lidi e letti accoglienti. Abbiamo paura del politico vanesio e calcolatore, dell’artista narcisista. Abbiamo persino paura del maestro di giornalismo che piomba benedicente sul Giro come su qualche altro traguardo importante, da audience, dice che se potesse farebbe un giornale con soltanto storie di bicicletta (il bello è che potrebbe, ma non vuole), afferma la superiorità morale enorme del ciclismo sul calcio e intanto guarda impaziente l’orologio per non perdersi una qualche sfida pallonara.
Noi siamo per la teleciclisticizzazione massima delle gare ciclistiche, certi che presto o tardi (però pensiamo che possa accadere anzi, usando un verbo con meno casualità e più logica, possa avvenire presto) la gente si stancherà delle troppe proposte di sport orpellato, snaturato, contaminato da situazioni e personaggi non sportivi, e dunque assumeranno straordinario valore certe piccole azioni conservatrici, certe preziosità di antiquariato, certi culti del bello semplice che non solo fu, ma che è. Teletrasmissioni semplici a costo di essere definite banali, pulite a costo di essere definite asettiche, pure a costo di essere definite infantili. Magari il disgusto per il resto, servito e imposto in dosi oscenamente forti, convoglierà alcune o molte sensibilità verso le cose serene, umili, oneste, tenere.
Possiamo sbagliarci, ma non sarebbe nessun dramma, per carità: lo tsunami della modernità a tutti i costi ed anche a tutti i prezzi può non essere arrestato. Ma bisogna tentare: e perché “non si sa mai”, e perché esiste pur sempre un’etica assoluta e particolare, da coltivare sempre e comunque, visto che ogni tanto si deve passare davanti ad uno specchio e guardarsi in faccia. Adesso ci sono i giorni del Tour, così forte di suo da potersi permettere di ignorare il resto del mondo: ma la telecrociata è un’altra, riguarda tutto il resto del ciclismo, debole, educato e mite. Giro d’Italia compreso, e lo diciamo non per limitare il Giro.
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