Finita la festa, l’orgia, la saga, la sagra olimpica e mondiale, secondo noi il ciclismo in senso lato, molto lato, deve avere il coraggio di tenersi un certo discorso, che vada da Atene a Verona al resto del mondo. È il discorso della universalità.
Paolo Bettini ad Atene, pochi minuti dopo avere vinto la corsa dei Giochi, sconfiggendo persino lo zavorrante pronostico favorevole, ha chiarito il diverso respiro di un successo a cinque cerchi rispetto ad un successo diciamo classico, si tratti pure di quello iridato. Ai Giochi avverti la festa del mondo, ai Mondiali nonostante la denominazione avverti la festa del grande paese della bicicletta. Ai Mondiali quelli del calcio, e soprattutto dell’atletica, del nuoto, sono distanti, ai Giochi sono lì intorno a te, ad applaudirti.
Non intendiamo affatto stabilire una graduatoria, anche perché non è detto che quantità significhi qualità, casomai è il contrario. Non intendiamo togliere niente a Verona. Però ci sovviene Shakespeare, “Giulietta e Romeo”, una frase fra i due amanti sembra scritta apposta per questo articolo: “Non c’è mondo fuori dalle mura di Verona”. Shakespeare vuole dire che un amore così grande racchiude dentro la sua vicenda tutto quello che c’è sulla terra, basta e avanza a chi lo vive per sentirsi al centro addirittura dell’universo, anzi per decidere che l’universo manco esiste. Molto liberamente, vogliamo adattare questo Shakespeare al ciclismo iridato: Verona ha riassunto tutto questo ciclismo, ed è stato come se il grande paese della bicicletta si fosse raggrumato nella città scaligera. Grande grandissima cosa, ma cosa da paese. Grandissimo paese, ma paese. Con tanto di mura e di ponte levatoio alzato.
Se invece vinci un’Olimpiade, ti espandi insieme con il tuo sport. Non hai confini. Nel preciso istante in cui vinci sai che in Bangladesh uno che pedala al riksciò ascolta la radiolina e sa di te. Oppure occhieggia il televisore passando davanti ad un bar, e sa di te. E non perché sta pedalando (magari tira il rikscò a piedi) ed anche tu pedali, no. Ma perchè è l’Olimpiade.
Il ciclismo rischia di venir tagliato fuori dal programma olimpico. È sport molto impegnativo, chiede per ore una strada, meglio se al centro di una città, e pazienza se alzando gli occhi dal traguardo non si vede sempre una Acropoli, il Partenone. Chiede un velodromo. È minacciato dal triathlon che si è pappato una parte di pedalate. Il triathlon è una immane cretinata tecnica ed agonistica: uno nel nuoto fa l’impresa e stacca tutto il resto del mondo di un minuto, poi c’è la prova in bicicletta e gli staccati facendo gruppetto e dandosi il cambio lo prendono e lo staccano perché sfinito. Però piace agli sponsor, è la fitness al cubo, amen. Il ciclismo deve stare attento a non trovarsi fuori da un programma olimpico che il Cio cerca continuamente di sfoltire, con tutti i pretesti. Il velodromo rischia grosso. La pista ha immesso troppe specialità, alcune davvero di nicchia, per quattro gatti. Bisogna saperlo onestamente ammettere. Più facile per noi farlo dopo i Giochi di Atene: prima si era soliti vincer molto o abbastanza, sulla pista, e dunque c’erano remore nazionalistiche. Quanto poi alla mountain bike, sembra essersi radicata bene, ma non vorremmo che si trattasse di un “troppo bene”: per soppiantare la gara su strada, che organizzativamente è assai più ingombrante.
Ad Atene è accaduto che una giornalista, peraltro brava, il primo giorno di gare olimpiche, sabato 14 agosto, abbia telefonato al suo grande giornale segnalando che stentava ad arrivare in quel dato posto per fare quel dato servizio: “Qui sono pazzi, ci sono le Olimpiadi e in piena città ti organizzano una corsa ciclistica che la taglia in due”. Neanche il sospetto che la corsa facesse parte del programma dei Giochi. Della cosa possiamo senz’altro ridere, ma dobbiamo anche riflettere.
Il ciclismo ha bisogno dei Giochi: ma per trasmettere immagini di sport semplice, facile, imitabile sulle strade del mondo. La pista in questo c’entra poco. L’unico vantaggio della pista in chiave olimpica è che sta tutta racchiusa in poco spazio, dunque va benone per la televisione, che si trova di fronte a gare che sembrano di “giochi senza frontiere”: ma non ci pare che questa caratteristica debba fare inorgoglire. Anzi.
IGiochi col ciclismo “open” sono stati tutti bene frequentati, almeno per la prova su strada: hanno vinto lo svizzero Richard ad Atlanta 1996, prima edizione con i grandi del professionismo, il tedesco Ullrich a Sydney 2000, gran corsa, e infine l’italiano Bettini ad Atene 2004, capolavoro di tattica (collettiva) e poi di forza. Bisogna che la federazione mondiale obblighi ad onorarli anche quelli che vorrebbero snobbarli, magari per imitare il calcio che si concede pochino all’Olimpiade. Molto realisticamente, il calcio può permettersi il crimine etico, il ciclismo no.
Atene 2004 poi va consegnata alla storia del ciclismo anche per il doping. Nel senso che l’edizione dei Giochi olimpici forse più controllata della storia non ha visto i ciclisti colpevoli di frodi chimiche. Non male per lo sport a priori capofila degli accusati, dei sospettati, degli inquisiti e spesso anche dei condannati. Naturalmente pochi del ciclismo hanno saputo individuare questa perla e lucidarla ed esporla perché tutti la vedano. Il ciclismo è esercizio masochistico costante, lo sappiamo. Con questo comportamento si rischia anche di dare la sensazione o di una furbizia superiore ai controlli, o di un casualmente scampato pericolo.
Bene, ci sembra che scrivendo ancora di Atene noi qui si abbia rispettato il termine Olimpiade, che non significa l’insieme delle gare, ma il periodo che intercorre fra una edizione dei Giochi e l’altra. Il ciclismo come tutto lo sport sta già nella ventinovesima Olimpiade e sin da adesso deve pensare a presentarsi in grande spolvero nella città più ciclistica del mondo, quella dove milioni e milioni di persone usano la bicicletta come strumento di lavoro. Si chiama Pechino, sta in Cina, ci aspetta nel 2008, la federazione mondiale della bicicletta ne chieda il cuore urbano per conquistare tutti gli altri cuori.
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