Proviamo qui a partecipare una ideuzza sullo sport che teniamo dentro da sempre e che ogni tanto riusciamo a far evolvere in un articolo: l’ultimo su La Stampa il 21 giugno ultimo scorso. Poi giriamo l’ideuzza, che nasce dal calcio, al ciclismo. Dunque, alla vigilia della partita di calcio definita di «combinata nordica» fra Svezia e Danimarca, quella che finendo 2 a 2 ha fatto fuori l’Italia dal campionato europeo, vanificando il suo peraltro penoso successo su un nulla compiacente chiamato Bulgaria, eravamo andati controcorrente di fronte allo sdegno preventivo per un eventuale accordo fra le due Nazionali scandinave, ed avevamo scritto che il 2 a 2, se attuato sul campo, sarebbe stato un omaggio allo sport e non un insulto ad esso.
Perché? Perché nello sport o almeno nello sport di competizione il conseguimento del miglior risultato possibile è il traguardo, lo scopo, l’intento, e in un torneo a lunga gittata il miglior risultato possibile consiste nell’andare avanti, qualificandosi e passando al turno successivo. Fare 2 a 2 insomma per noi era un omaggio allo sport vero, grosso, di obiettivo alto. Chiaro che se l’obiettivo dei “belligeranti” fosse stata invece una intensa seduta atletica a scopo salutistico e magari un risultato numerico che facesse piacere all’Italia, il discorso sarebbe stato diverso. Ma il salutismo e il masochismo contano meno, per fortuna, del successo sportivo. Dunque è stato 2 a 2, quattro gol e divertimento allo stadio per un esito finale che è tipico di tante contese amichevoli - perché non fa danni a nessuno dei contendenti -, delle quali peraltro diciamo solitamente che sono state partite vere, e comunque come tali le spacciamo..
Spieghiamo ulteriormente: se all’ultima giornata di campionato si affrontano una squadra che ha bisogno di un punto per non retrocedere e una che ha bisogno di un punto per vincere lo scudetto, dare vita ad una gara acre, tesa, allo spasimo, in cui una delle due finisce per perdere tutto, sarebbe profondamente demenziale ed antisportivo. Ben lo sappiamo noi italiani, che se avessimo avuto bisogno di un 2 a 2 lo avremmo costruito senza tante storie, ovviamente con di fronte un avversario in situazione analoga alla nostra. D’altronde si fanno continuamente dei 2 a 2 nella politica, nell’ideologia, nella vita di tutti i giorni.
Il discorso, è chiaro, si riferisce alla situazione attuale dello sport, dello show business, dove appunto bisogna andare avanti, perché dello spettacolo conta anche la lunghezza. Il signor Rossi che fa in mutande la corsetta nel parco o anche che gioca la partitella con gli amici non è parte dello show business, e può anche fare il matto, infartandosi o dribblando il capufficio che poi gliela farà pagare. La dicotomia è chiara, e secondo noi è da incrementare: solo così lo sport per sport si staccherà definitamente dallo sport per show, e vivremo tutti più felici e contenti, senza commistioni, recitazioni, finzioni, ipocrisie.
Una situazione come quella in Portogallo si riprodurrà altre volte, e mica soltanto nel calcio. Quando di essa saremo noi i protagonisti potremo, dovremo almeno essere sinceri. Anche perché del gruppo di inventori di inciuci abbiamo la presidenza onoraria, come minimo.
E passiamo al ciclismo: non è sport di squadra in senso diciamo ludico, anche se le squadre ci sono eccome (chiedere a Petacchi), però conosce bene gli accordi, le tattiche, i risparmi, gli attendismi, i calcoli, le remissività strumentali, eccetera eccetera eccetera. Da sempre si parla di scambi di favori, di corse decise a tavolino, di baratti se vogliamo usare questo termine. E non esiste l’istituto dello scandalo ipocrita.
I ciclofili si sono, pensiamo e speriamo, risparmiati lo scandalismo facile e ipocrita dei calciofili che hanno processato svedesi e danesi a priori ed a posteriori. Comunque il ciclismo può insegnare anche questo al calcio, dopo avergli insegnato gli abbinamenti ed il sistema pensionistico per gli atleti e magari anche il doping (nessuno è perfetto, nessuno è maestro ideale e basta).
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Intanto il ciclismo ed il calcio stanno effettuando insieme la scoperta o (per il calcio) la riscoperta dell’Olimpiade. Nel senso che la gara su strada dei Giochi (c’è pure il cronometro, ma non ha grande presa) e il torneo del pallone ai Giochi attirano attenzioni importanti, sono visti finalmente come grande palcoscenico per lo show e dunque anche per gli sponsor. Nello stesso periodo mezza estate hanno parlato di palcoscenico olimpico per Gilardino e Armstrong, fra tanti altri atleti importanti e impegnati sullo stresso tema. Mica male.
In effetti il comportamento di questi due sport, che in Europa sono i più popolari, nei riguardi dei Giochi olimpici è sempre stato strano. Il calcio ha accantonato a pro di manifestazioni specificamente sue i suoi fasti olimpici fra le due guerre, con la rivelazione dei sudamericani ancor prima del palcoscenico mondiale (Parigi 1924 e Amsterdam 1928: la Coppa del Mondo numero 1 ebbe luogo soltanto nel 1930). Il ciclismo ha sempre avuto paura, ai Giochi, di dare disturbo, e soltanto da poco, con la formula open, ha pensato ai suoi primattori impegnati in un teatro così universale, così nobile. Si dice: meglio tardi che mai. Ma c’è persino la possibilità di dare un senso provvido, logico, studiato al “meglio tardi”. E cioè meglio aspettare i Giochi ricchi e professionistici, come quelli attuali, e intanto capaci di darsi agli sponsor in maniera non servile, non indegna: ai Giochi non si vede la reclamizzazione di un prodotto che è uno, intanto che industrie enormi, produttrici di beni di consumo diffusissimi, danno tanti soldi al Cio semplicemente per “essere lì”, immanenti.
Una bella cosa. Una lezione? Una via di compromesso salvifico e onesto? Boh.
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