Editoriale
PRO SIMONI. Ha sbagliato a fare il «piangina» per tre settimane consecutive, prendendosela ogni santo giorno con il Tour, gli organizzatori del Tour, il vincitore del Tour e quanti ogni anno vengono a correre il Tour garruli e felici. Ha sbagliato a prendersela con Leblanc per il nuovo regolamento della cronosquadre anziché prendersela con i suoi tecnici e i suoi compagni di squadra, che questo regolamento non l’hanno compreso o hanno fatto finta di non comprenderlo (Simoni cade a 400 metri dal traguardo e i compagni non lo aspettano, facendogli pagare il distacco reale). Avrebbe dovuto solo e soltanto dire alla sua squadra e ai suoi compagni: «Se sono di troppo, ditemelo». Ha scelto l’ambiguità tipica della sua squadra, che sceglie facendo finta di non aver scelto. Eppure, delle ragioni il Gibo le ha: se non credono più in lui, se il suo contratto è troppo oneroso e desiderano scaricarlo, se vogliono puntare tutto sul «Piccolo Principe», Damiano Cunego, che lo dicano e poi si mettano d’accordo per un sereno divorzio. Evitateci questo nuovo, stucchevole, insopportabile stillicidio. Per il bene di Gibo, di Cunego, della Saeco e di tutti noi. Grazie.

PRO BASSO. Sul podio, dopo Marco Pantani. Dopo sei anni. Dopo che il 14 febbraio scorso avevamo pensato di dover ammainare per lungo tempo non solo le bandiere del pantanismo più vero, ma quelle tricolori del ciclismo italiano. Invece eccoci qui, con Cunego, Basso, Pozzato, Sella, tanti ragazzi pronti a divertire e a divertirci: come Marco Pantani. Se non come lui, quasi come lui.
Ivan voleva arrivare a Parigi nei primi cinque, ci è arrivato sul podio, dopo un Tour corso da protagonista, con una vittoria di tappa, l’unico che possa dire di aver tenuto testa quest’anno nelle tappe di montagna al texano dei record in montagna: diciamo l’unico che può dire di averlo perlomeno battuto. Sui Pirenei. Allo sprint.
E pensare che c’erano anche gli schizzinosi, quelli che davano per scontato il secondo posto, e che volevano che attaccasse il texano. Ma ci rendiamo conto di chi avesse davanti, che razza di campione è Armstrong?
E vogliamo dire una volta per tutte come hanno corso gli altri, in particolare Ullrich e Kloden della corazzata T-Mobile? Loro due, non hanno forse solo e soltanto corso per arrivare secondo e terzo. Cosa hanno fatto più di Ivan per meritare considerazione?
No, scusateci se noi siamo «bassologi» della prima ora, se noi questo ragazzo lo stimiamo e lo apprezziamo così come è. Per quello che è: una bella persona, un ottimo corridore, un ragazzo squisito che sa interpretare il ciclismo in maniera antica e universale. Un atleta che ricorda il nostro Felice Gimondi, ma per il suo puntiglio, l’amore per la professione e il Tour de France anche un po’ Lance Armstrong.
Un podio al Tour vale come il Gran Premio di Rio Saliceto o il Brixia Tour? Fate pure, noi questo podio lo consideriamo una vittoria: piena e assoluta, soprattutto in prospettiva futura. Ivan ha 26 anni, quattro Tour alle e sulle spalle, e un miglioramento costante e continuo. Undicesimo, settimo, terzo. C’è chi storce il naso e replica: fa solo il Tour. E quanti fanno solo il Giro? «Ce n’est pas la même chose».

PRO SIMEONI. Lo «sfregio» del Padrino resterà a lungo nella storia del ciclismo e in quella di Armstrong in particolare. La rincorsa a Filippo Simeoni nella tappa di Lons-Le-Saunier è stata a dir poco «dégueulasse», disgustosa, come lo stesso cow-boy ha definito sull’Alpe d’Huez certa tifoseria dalla matrice tedesca. Disgustosa anche e soprattutto la reazione di alcuni corridori dell'Italia del pedale, che hanno apostrofato pesantemente Filippo, come traditore e indegno. Una brutta pagina di sport, che vede tristemente protagonista un ragazzo che non può e non deve essere considerato un «pentito». Filippo fu obbligato da un giudice della Repubblica a parlare, a spiegare certi codici contenuti nel suo diario, a rivelare il nome del medico o preparatore (Michele Ferrari) che gli avrebbe consigliato o probabilmente prescritto certe pratiche. Filippo non è un pentito, né tantomeno una spia. Non ha fatto nomi, ha solo ammesso le sue colpe, i suoi errori, e ha rivelato solo e soltanto il nome di chi l’avrebbe guidato in questo viaggio nell’oscuro e tetro mondo del doping. Filippo non ha chiamato in causa nessuno, né tantomeno Armstrong. È stato piuttosto il texano, con fare da bullo, a scendere in campo dandogli del bugiardo sulle colonne di «Le Monde» (beccandosi per questo dal corridore di Sezze una sacrosanta querela), per difendere il suo preparatore, che in ogni caso, fin quando un tribunale non si è espresso, va considerato innocente.
Simeoni ha parlato, pagato, e non è giusto che continui a pagare. E se noi vogliamo un po’ di bene al ciclismo, e a quanti questo sport lo interpretano nel modo più corretto, dobbiamo un po’ di bene anche a lui: a Filippo Simeoni, l’uomo che ha pagato per i suoi errori.

PRO TOUR. Tutti contro il Tour e Jean Marie Leblanc, colpevole quest’ultimo di aver fatto la voce grossa, e d’aver rimandato a casa prima Danilo Di Luca e poi Stefano Casagranda, in quanto «non graditi» alla corsa francese perché con questioni aperte con la giustizia.
Se fosse stato per il gran capo del Tour, avrebbe riservato lo stesso trattamento a Stefano Zanini e Pavel Padrnos, «salvati» - in questo caso - dall’opposizione dell’Uci.
Un intervento, questo, per noi sbagliato, ingiusto e tardivo. Perché tanta preoccupazione solo per Zanini e Padrnos e non anche per Casagranda e Di Luca? Forse perché la Saeco ha deciso - almeno fino a quel momento - di non far parte del «Pro Tour»? Non ci sembra un bel modo di operare, soprattutto non ci sembra il modo corretto e giusto per garantire giustizia e uguaglianza. E detto in terra di Francia suona certamente ancora più grave.
Tutti contro Leblanc e il Tour, ma io vorrei invitarvi ad una piccolissima riflessione: ha più colpe il Tour, che guarda alla propria corsa con giustificata e interessata passione, cercando in tutti i modi di salvaguardarsi da brutte sorprese e presenze scomode, o l’Uci, che non fiata e lascia fare?
Come due anni fa, quando Leblanc decise di non invitare Cipollini campione del mondo, fu l’Uci a fare la figura peggiore, a uscirne con le ossa rotte, perché non difese la sua maglia: quella di campione del mondo. Quel giorno, quell’anno Leblanc non mancò di rispetto a Mario Cipollini, ma al ciclismo tutto. L’Uci aveva il dovere di difendere il «suo» campione del mondo, la «sua» maglia iridata. Ma preferì tacere, e lasciar fare.
Anche in questa occasione, il lungo silenzio del governo centrale non ci è piaciuto. Se nessuno pone dei freni e dei limiti a Leblanc, perché mai il gran patron del Tour non dovrebbe continuare a fare il bello e il cattivo tempo? Perché non dovrebbe ricordare a tutti che l’Uci governa il ciclismo, ma non il Tour? E sarà poi davvero un caso che il nuovo circuito pensato e varato dall’Uci sia stato chiamato «ProTour»? Secondo noi, no. Tutto ciò che si pensa, che si pianifica deve avere solo un’unica grande priorità: essere a beneficio della più grande corsa del mondo. Dev’essere, per forza di cose, pro Tour.

Pier Augusto Stagi
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