Cimolai, orgogliosamente gregario

di Giulia De Maio

«Non ci sono parole per de­scrivere certe emozioni, vanno solo vis­sute. Sono un ra­gazzo cresciuto con dei valori che per me vanno al di sopra di tutto come l’onestà e la generosità, e che vive ancora di emozioni. Ieri è stata una delle giornate più belle della mia carriera, ha vinto l’amico Matteo Trentin ma ad esultare per primo e a commuovermi sono stato io. Siamo stati una gran Na­zionale. Forza Azzurri, sempre!»
Con queste poche parole postate sui suoi profili social Davide Cimolai ri­sponde a tutte le domande che avevamo in mente di porgli in questa intervista. Ci anticipa sui tempi, come ha fatto con gli avversari al Campionato Eu­ro­peo di Glasgow, dove si è dimostrato spalla perfetta per la conquista dell’oro di Matteo Trentin. Eravamo curiosi di chiedergli se, almeno per un attimo, avesse pensato di potersi giocare le sue carte, lui che è tutt’altro che fermo in volata. E invece il “Cimo” con il suo messaggio postato il giorno dopo la sfida continentale, ci ha spiegato con rara semplicità cosa vuol dire correre da squadra. Anzi da Squadra, come de­fi­niva l’Italia il grande Alfredo Martini, perché solo noi sappiamo correre così uniti. Il suo è il perfetto manifesto del gregario, quello che fa di tutto e anche di più perché alla fine vinca un altro, perché questo è scritto nei suoi geni. In realtà non serviva nemmeno leggere le sue dichiarazioni, per comprendere la sua pura gioia bastava vedere la foto dell’arrivo con il friulano già a braccia alzate mentre “il Trento” sprintava o gli scatti del post gara con quel bellissimo abbraccio e il volto rigato di lacrime, come se avesse vinto lui. E in effetti così è, perché se Trentin vestirà per un anno la maglia di campione europeo tutti i tifosi italiani si ricorderanno per sempre della sua corsa da favola.
Ti sei reso conto del capolavoro che avete realizzato?
«Sono felice di aver emozionato tante persone che ci hanno seguito dalla tv, questo è il regalo più bello che po­tessi farmi alla vigilia del mio compleanno. Purtroppo non ho avuto tem­po di festeggiare, perché la sera stessa delle gara avevo un charter da prendere per il Belgio. La squadra mi ha schierato al Binck Bank Tour, che scattava il giorno dopo l’Europeo. Ero stanco mor­to e prendere altro vento e pioggia non era proprio quello che desideravo per i miei 29 anni, ma sono abituato a rispettare gli ordini di scuderia. Come a Glasgow. Siamo partiti con un obiettivo chiaro e tre capitani ben definiti: Viviani in caso di arrivo a ranghi compatti, Colbrelli e Trentin se fossero an­dati in porto attacchi di gruppi ristretti. Fossi stato il solo azzurro in fuga o se, quando ho attaccato ai meno sette chilometri dal traguardo, mi avessero la­sciato andare la storia sarebbe stata di­versa, ma non ho rimpianti. Per come potevo, le mie chance me le sono giocate, sulla carta nel gruppetto di testa potevo essere il più veloce, ma in una corsa dura come quella che abbiamo vissuto tutto si rimescola e il Trento era il nostro asso nella manica».
Matteo ti dovrà fare un bel regalo. Guar­nieri scherzando ha twittato che meriti una statua, con le scarpe glitterate ovviamente...
«Non male come idea (ride, ndr). Ten­go molto al look, allo stile, alla moda. Anche quando sono in bici l’immagine ha il suo perché. La Gaerne mi ha fornito delle scarpe speciali per l’Eu­ro­peo, rivisitate da Innocente Ciciliot con tomaia bianca glitterata (sulle chiusure boa c’erano le sue iniziali contornate da polvere di diamante nera e da due bandiere tricolori realizzate con 0.25 carati di rubini, 0.42 carati di diamanti e 0.52 carati di smeraldi, ndr), bellissime. La sostanza però è quella che con­ta di più. Mi sono emozionato tanto al traguardo perché ci tenevo, avevo preparato bene l’appuntamento, me lo ero prefissato come obiettivo di fine stagione. Ho trascorso tre settimane a Li­vigno, un giorno ho trovato Matteo e abbiamo pe­dalato insieme per sei ore e mezza, scalando tutti i passi possibili im­maginabili.
Magari era de­stino che all’Euro­peo finisse così, con me e lui nell’attacco decisivo. È stato proprio bel­lo, sono consapevole che un gesto come il mio non si vede spessissimo, volevo dare l’esempio ai tanti ragazzi che ci seguono. Aiutare gli al­tri a realizzare un sogno regala una gioia immensa».
Cosa significa mettersi al servizio di un compagno, in maglia azzurra?
«È un’emozione difficile da spiegare. Tanto lo fa il carattere del ragazzo, per me è una sensazione naturale. Eravamo senza ra­dioline, prendere de­cisioni in corsa non è facile, la responsabilità di ogni mossa ricadeva direttamente su ognuno di noi, ma siamo un gruppo di ragazzi intelligenti e sapevamo cosa fare. Siamo stati premiati da un risultato strepitoso. Per quanto mi riguarda, da professionista era solo la seconda volta che correvo in Nazio­nale, dopo l’Euro­peo di un anno fa. Vestire la maglia azzurra è un onore, rappresenti l’Italia, storicamente la nazionale di riferimento. Sapevamo di essere i più forti e di dover gestire la corsa, come abbiamo fatto. Ogni ragazzo ha fatto il suo, “Trento” è stato bravo a capire che era l’azione decisiva e ad entrarci con me».
E in un evento di questa portata, l’eco di un successo va oltre il mondo del ciclismo.
«Me ne sono accorto dai tanti messaggi che ho ricevuto, neanche quando ho vinto in prima persona (nel suo palmares troviamo la cronosquadre della Settimana Internazionale Cop­pi&Bar­tali 2010, il Trofeo Laigueglia e una tappa alla Parigi-Nizza nel 2015, due tappe alla Volta a Catalunya e una al Giro del Giappone, ndr) il cellulare è andato così “in palla”. Marta Ba­stia­nelli mi ha scritto: non va bene copiarci. Anche quando ha vinto lei, la prima ad esultare, dietro, era in maglia azzurra (Elena Cecchini, friulana come Da­vide, ndr). I messaggi che ho apprezzato di più sono stati quelli in cui mi si definiva un esempio di vita. Ci tengo molto ad essere un uomo rispettabile prima che un corridore stimato. Ho di­mostrato che sono un signore, era quello che m’interessava. Se in nazionale non ci sono persone intelligenti si rischia una figuraccia. Io sono così di carattere, non sono cose che si insegnano».
Torniamo in­die­tro nel tem­po: quando hai iniziato a correre?
«Da piccolo ho praticato calcio, sci e nuo­to. Ven­go da una famiglia di calciofili, an­che io fino a 3-4 anni fa ero un ti­foso sfegatato dell’Inter. Poi ab­biamo iniziato a perdere... (ride, ndr). Per un paio d’anni mi sono divertito andando sia in bici che giocando a pallone, poi da allievo ho scelto il ciclismo perché è uno sport più individuale, che ti dà gloria. Ho giocato a calcio come seconda punta, avevo una buona resistenza ma avevo in mente la bici, passione trasmessa dal nonno materno Odorico, che per me è sempre stato “nonno Rico”. Peccato sia mancato quando ero ancora piccolo e non mi abbia visto sbocciare nelle categorie maggiori. Abitavo a Vigonovo, vicino a Porde­no­ne, e mio nonno, che viveva in città, veniva da noi in bicicletta. I 15 chilometri che fa­ceva mi sembravano un’impresa eroica. La prima gara a 8 anni con la maglia del Team Fontana­fredda. Ho di­sputato due gare da G3, nella prima arrivai quarto, ricordo quanto il mio diesse mi spronasse a continuare. Da G4 vinsi 9 corse, da G5 19 su 23 e da lì in poi ho sempre avuto la fortuna di vincere parecchio».
Raccontaci della tua famiglia.
«Provengo da una famiglia semplice, che non mi ha mai fatto mancare nul­la. Papà Lindo, che prima era verniciatore in fabbrica e adesso lavora all’aperto come me, nelle viti, e mam­ma Rossana, maestra all’asilo nido, oltre a me hanno cresciuto Edoar­do, di 3 anni più piccolo di me, che lavora in una grossa ditta che si occupa di metallo e, pensa un po’, si chiama Cimolai ma non è nostra (sorride, ndr). Come detto i miei parenti più stretti non avevano un particolare interesse per il ciclismo, ma per forza di cose si sono appassionati. Mio fratello ha corso da giovanissimo e ha persino vinto un ti­tolo regionale prima di me, sai co­m’è, a quell’età vale come un mondiale. Ora si diverte con il calcetto».
Cosa ti appassiona al di là della bici?
«Il mondo dei motori, le auto sportive in particolare. Una volta ero un tipo da discoteca, adesso c’è Greta. Quando sono a casa mi piace portarla fuori a cena, ci sono così poco che anche quello è un evento. Adoro il sushi e il pesce crudo in generale. Nelle cuffie però ho sempre musica elettronica, dance o house. Ho tre stelle tatuate sul braccio destro che sono simbolo della musica tecno-elettronica, che mi accompagna nei lunghi allenamenti, spesso in solitaria. Sul braccio sinistro, nella parte al­ta, sotto la spalla, ho le iniziali della mia famiglia e sul polso sinistro il no­me della mia compagna».
Nel 2019 con che maglia ti vedremo?
«Non lo so ancora, ma vorrei cambiare aria. Mi sono affidato a Manuel Quin­zia­to, di cui ho una grande fiducia. Oltre all’amicizia che ci lega sono più che tranquillo che mi farà ottenere il meglio possibile, era un professionista esemplare in bici e lo è altrettanto ora che fa il procuratore. In quale squadra vorrei andare? Non ho richieste particolari, tornare in Italia è impossibile perché non abbiamo più squadre, ma ho voglia di intraprendere una nuova sfida. Negli allenamenti continuerà a seguirmi di certo Claudio Cucinotta, anche lui con un passato da professionista».
Prima però, per finire l’anno con i fiocchi, c’è da vestire l’abito migliore e portare una bella ragazza all’altare.
«Non vedo l’ora. Il 20 ottobre sposerò Greta, al mio fianco da cinque anni, e ne sono felicissimo. Abbiamo già fatto tutto, gli inviti sono stati spediti e non stiamo più nella pelle. Il matrimonio si terrà a Sacile, dove abitiamo, nella chiesa centrale e poi ci sposteremo a festeggiare in un ristorante a 200 metri di distanza con amici e parenti. Per l’importanza che dò io al vincolo del matrimonio, lo vivo come un importante traguardo della vita. E dopo questo passo fondamentale, spero al più presto di allargare la famiglia».
Ne siamo certi, uno così al grande Al­fredo sarebbe piaciuto da matti.

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