N on ho nessuna voglia di scrivere su tuttoBICI di Pantani, magari un classico commosso e commovente ricordo. Lo dico mettendolo nero su bianco a un bel po’ di giorni da una morte annunciatissima, nel nostro ambiente. Un mese prima della tragedia ne parlavo con gente importantissima del ciclismo e qualcuno bene informato paventava una brutta fine per il povero ragazzo che Marco era stato, per il pover’uomo che Marco era diventato. In uno dei giornali con cui collaboro volevano un pezzo forte sulle misteriose morti di tanti campioni del ciclismo, dopo la morte di Pantani. Ho detto che non so nulla di queste morti, non mi pare che ci siano casistiche e prove valide, sono stato guardato come uno che ha reticenze mafiosette, che non vuole sparlare del suo mondo. Non ho scritto niente.
Non ho nessuna voglia di scrivere su tuttoBICI di Pantani. Ho scritto un ricordo di Marco su una rivista a grandissima tiratura. La rivista è la più famigliare e aperta e libera che ci sia, mi ha telefonato mezza redazione per dirmi che avevo scritto un bell’articolo dolente ed equilibrato insieme, mi hanno scritto due lettori per dirmi che faccio schifo e dovrei vergognarmi per come ho trattato lo scomparso, mi ha scritto una ex atleta azzurra per dirmi che ho ricordato il campione morto nella maniera più giusta.
Non ho nessuna voglia di mettere in discussione oltre mezzo secolo di mio giornalismo onesto e appassionato per una faccenda come questa tragica avventura di un ciclista: temo che non riuscirei a farmi capire anche dai lettori di tuttoBICI. E sarebbe bruttissimo, perché penso che questi lettori siano quelli del mio mondo.
Ho una terribile paura di contribuire, sia pure per un solo atomo, alla confusione intorno a Marco Pantani. Naturalmente anche io, pur cercando di limitarmi in un mestiere di cui peraltro vivo (campo di articoli scritti, se non ne scrivo nessuno devo affrontare dei problemi), ho scritto qualcosa su Pantani. Ed ho sbagliato. Molto semplicemente perché è impossibile scrivere qualcosa di giusto su una vicenda, su una tragedia di cui non conosciamo bene la genesi, i risvolti, lo stesso protagonista (pochi i campioni della bici meno chiusi, più sprovvisti di un’aneddotica tipica e gentile), i protagonisti. Posso persino arrivare a pensare di essere tra quelli che hanno lasciato solo Marco, anche se non accetto di venire implicitamente accusato di concorso in omicidio da sua madre, nel suo urlo contro tutto e tutti. La quale madre vive un dolore tremendo e sacro, ma forse deve anche urlare o sussurrare qualcosa a se stessa (magari lo ha fatto, io ci credo): come tutti quelli che potevano fare di più, e che mentre Marco batteva le strade della notte a cercar droga erano da lui lontani di spirito e di corpo.
Non ho nessuna voglia di fare della facile agiografia su chi è scomparso. Ritengo un segno di rispetto verso Marco il non avere costellato il ricordo di lui con episodietti patetici, per farlo apparire a tutti i costi simpaticone, allegrone, tenerone, compagnone.
Non ho voglia di andare avanti su Pantani. Ma mi sembra di avere percorso, in poche righe, una lunga tappa. E di poter legittimamente dialogare, partendo dal caso Pantani, su una certa attitudine masochistica del ciclismo.
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Ho avuto l’onore di non partecipare a nessuna telecommemorazione ufficiale dello scomparso, di non essere chiamato a nessuna tavola rotonda per discutere il doping e la droga nel mondo dello sport. In tutto ho pronunciato quattro parole su Marco a Telenova, emittente milanese a me cara, e alla radio della Svizzera italiana. Non so se non sono stato convocato perché non conto nulla o perché finalmente sono riuscito a far sapere come la penso, e dei miei pensieri qualcuno ha paura. Ho notato che anche gente che conosce il ciclismo, che ama almeno a parole il ciclismo, non ha potuto resistere alla tentazione di fare la concione, di recitare l’indignazione o per il singolo lasciato solo o per il mondo che produce mostri. Non uno che (si sia) abbia chiesto se non si sia trattato di una storia di droga come tante altre, dove la persona celebre e ricca viene focalizzata dagli spacciatori come bersaglio a cui arrivare ad ogni costo, perché fonte di alto reddito. Conosco storie terribili di ragazzi ricchissimi, seguitissimi dai loro genitori, controllatissimi persino dalle loro scorte, ai quali gli spacciatori sono comunque arrivati, prima salassandoli poi portandoli a morire.
Possibile che nessuno abbia saputo o voluto o potuto dirlo in una trasmissione televisiva di alta audience, di forte presa?
Qui entrano in ballo le lacune del ciclismo. Perché manca al nostro mondo, diciamo pure alla nostra federazione, una ideologia di difesa e se necessario di contrattacco. La massima tecnica psicologica consiste nell’emettere forti sospiri, quando si viene interpellati sulle macroproporzioni del fenomeno doping nel mondo della bicicletta, e di aspettare che qualcuno dica che sì, anche altrove nello sport accadono certe cose, e allora assentire, oh quanto vigorosamente assentire.
Manca al ciclismo italiano un difensore che sappia parlare alla gente e dire attenzione, qui ci vogliono usare come sfogatoio di indignazioni e tristezze che non debbono essere soltanto nostre. Si dovrebbe assumere un esperto, un filosofo, un sociologo, un tecnico della pubblicità e quindi della contropubblicità. Si dovrebbe creare una task force per occupare teletrasmissioni, o quanto meno contestarle, disturbarle, segnarle. Il ciclismo non ha la potenza del calcio, che ha le sue storie di doping, di droga, di cocaina e le riesce ad ovattare. Magari proprio Pantani si è trovato di fianco calciatori famosi nelle sue squallide avventure, magari, magarissimo. Ma nel calcio la cocaina è droga sociale, che non ha niente a che vedere con lo sport, nel ciclismo è droga conseguenziale al doping, o alla depressione da antidoping. Boh.
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Non volevo scrivere su tuttoBICI di Marco Pantani. Non mi ritengo in possesso di nessuna prima pietra da scagliare, di nessun dogma onesto da esercitare, di nessun anatema perbene da scaricare. Non penso di aver comunque aggiunto niente alla massa di parole emesse in questo periodo sulla tragedia. Niente di importante, niente che debba essere ritagliato, archiviato, conservato. Diciamo che ho preso con questo articolo una pilloletta contro il gozzo, il mio. Ed anche contro il groppo in gola.
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