Adesso che i due Giri più belli e più grandi sono archiviati, è possibile stabilirne sommariamente le differenze. Personalmente, dopo averne frequentati un tot, ho riscontrato soprattutto queste.
Da che mondo è mondo, da che bici è bici, nelle corse si cade molto e per molti motivi. All’ultimo Giro, ricordo, l’acme del fenomeno si registrò a Cervia, dove un circuito cittadino peraltro riasfaltato fu misurato a faccia in giù da diversi corridori. Il più feroce di tutti, una volta arrivato al traguardo, si rivelò Baldato: roteando pugni, diede agli organizzatori degli assassini. E qualche giorno dopo, in occasione di nuove cadute, replicò con un simpatico «criminali». Poco importa che molti suoi colleghi insistano ad affrontare discese e volate senza casco: lo sport di primavera resta la piazzata del dopocorsa contro Castellano. Il quale, sia detto chiaramente, qualche volta se le merita. Ma che va assolto con formula piena non appena si vedono all’opera i ciclisti italiani al Tour. Lì, colti da incontenibile afflato romantico, accettano virili e rassegnati le più subdole cattiverie degli organizzatori locali. Più gliene fanno, più si sentono uomini veri e più si riempiono la bocca di leggiadre frasi del tipo «questo è il Tour». C’è gente caduta una ventina di volte, contro spartitraffico forcaioli e contro turiste che si sporgono garrule per fare ciao con la manina, gente senza più un centimetro di pelle al suo posto, gente costretta al ritiro dopo una stagione di sacrifici in chiave Tour, gente battuta come scamone, gente ormai all’ultimo stadio, gente finita: però con l’espressione immancabilmente assorta di chi vorrebbe dire «ma sì, datemi anche degli schiaffi, tutto qui è così bello».
Un’altra differenza che ho verificato, puntualmente, tutti gli anni, riguarda i cosiddetti stress logistici. I corridori devono già pedalare sei-sette ore al giorno, è ovvio che poi meritino almeno un buon albergo, possibilmente fresco, pulito e silenzioso, dove si mangi senza salmonella. Ed è ugualmente ovvio che si dovrebbero risparmiare loro i lunghi viaggi supplementari, per raggiungere gli alberghi o peggio ancora per risalire intere regioni in treno o in aereo. Ebbene: quando al Giro un corridore si trova una zanzara in camera scoppia la grana, questi organizzatori sono delle bestie e degli incapaci, imparassero una buona volta da quelli del Tour. Giuro, dicono così: imparassero da quelli del Tour. Poi però si va in Francia e capita di dormire in alberghetti costruiti in Lego, afosissimi e lontanissimi. Per non dire poi dei trasferimenti, variabili mediamente tra i seicento e gli ottocento chilometri, così, dalla sera alla mattina. Devastato dalle zanzare, irritato dai bruchi (è successo), con le occhiaie del nottambulo, il feroce e sindacalizzato corridore italiano incontra però un bel giorno l’organizzatore francese. E allora, finalmente, giunto alla resa dei conti, lo affronta e lo incenerisce con una sola battuta: «Merci».
Vogliamo proseguire? C’è per esempio il capitolo denari. Ogni volta che ci si avvicina al Giro, i gruppi sportivi italiani minacciano la serrata. Pretendono - secondo me giustamente - di partecipare al business, cioè vorrebbero qualche soldo dagli organizzatori, visto che in fondo sono loro a pagare gli attori dello spettacolo, nel senso di corridori. Volano parole grosse, si sente addirittura parlare di un Giro alternativo organizzato dalle stesse squadre, in autogestione, noi paghiamo e noi incassiamo. Scenari da guerra totale. Oddio, adesso viene giù tutto e restano solo macerie. È necessario specificare poi cosa succede non appena arriva il Tour? Sono simpaticissimi: i gruppi sportivi italiani si mettono in fila, cappello in mano, davanti alla porta degli organizzatori francesi. Implorano un invito, pietiscono un po’ di considerazione, sono pronti a massacrare fior di corridori pur di avere un posto in carovana. Chiedere ingaggi? Per favore, non scherziamo: «Questo è il Tour».
Tranquilli, la chiudo qui. Non voglio martirizzare nessuno con un elenco troppo lungo. Piuttosto, bisognerebbe trovare la morale di tutto questo discorso. Ma io, sinceramente, ci capisco poco. Meglio: so che il Tour è una grande corsa. Però, in nome di questa grandezza, vedo squadre e corridori stendersi a pelle di leopardo per farsi camminare sopra. Verrà il giorno che accetteranno entusiasti di pagare il biglietto d’entrata. Così, solo per esserci. E per tornare poi a casa come reduci dal Vietnam, buoni per aperitivi al bar o cene in pizzeria, tirando tardi al racconto delle cose più turpi. Chiudendo un po’ ebbri e un po’ malinconici, davanti all’ultimo bicchiere, con una frase piena di significati nascosti: «Amico, questo è il Tour».
Cristiano Gatti, 40anni,
bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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