Rapporti&Relazioni
La mia Francia

di Gian Paolo Ormezzano

Da un po’di anni passo tanti giorni del mese di luglio in Francia e mi telegodo ore e ore di Tour, sempre belle cose nonostante la prolissità enfatica di tanti commentatori francesi, a proposito dei quali penso a cosa di pomposo, solenne, da grandeur iperpraticata, farebbero direbbero proclamerebbero in caso di ciclismo francese dominante. A ottanta an­ni compiuti, passati, magari in tanti sensi suonati, mi piace emettere alcune considerazioni sul mio giornalismo molto francofono e persino francomane, sia per ringiovanirmi sia per scrivere qualcosa che forse interessa. Sì, perché io ho cominciato col giornalismo vero grazie anche se non soprattutto alla Francia, e ciclismo, e al Tour.

Anno1960 dunque: l’ho cominciato da giornalista abusivo, l’ho finito da praticante cioè ormai giornalista professionista (l’esame allora non c’era). Primo grosso servizio dal 1° di gennaio, il reportage sul ricovero in ospedale e morte e funerali di Fausto Coppi, che avevo fatto in tempo a conoscere nel 1959, l’anno del mio primo ciclismo da scrivano sin lì tuttofare. Piango il mio amatisismo Coppi, i miei servizi piacciono, tutta Italia legge e piange, al gior­nale si accorgono di me (ero stato mandato a Tortona semplicemente perché i vecchi della re­dazione erano tutti stanchi dopo la veglia di capodanno). In quello stesso inverno vengo inviato, una sorta di premio, ai Giochi olimpici invernali di Squaw Valley, California, Usa, per la pri­ma delle mie ventiquattro Olimpiadi giornalistiche. Mia America ok e allora la grande idea del direttore. Visto che io parlo bene francese, visto che affermo di sapere anche di calcio, mi mandano a Parigi per un paio di mesi, maggio e giugno, però alberguccio con stanza sen­za bagno e pasti leggeri convenzionati.

Si gioca a pallone per la Coppa delle Città delle Fiere (embrione della Coppa Uefa ora Europa Cup), ci sono tante squadre italiane che vanno in Francia e squadre francesi che vanno in Italia, poche partite hanno inviati al seguito, d’accordo con L’Equipe, quotidiano sportivo transalpino e vangelo mondiale, io sto nella redazione centrale di Parigi nelle sere delle partite in Francia e leggo le copie degli articoli su di esse (car­ta carbone dei dattiloscritti degli stenografi che allora “traducevano” le telefonate dei loro inviati e corrispondenti). Tra­du­co mentalmente perché non c’è il tempo di scrivere e detto agli stenografi del mio giornale. Il tutto in una ridda spaventosa di chiamate avventurose, di telefoni precari, di bordelli assortiti. Sempre lavorando sul tempo che stringe, ascolto i testi che dal mio giornale mi leggono sugli in­contri delle squadre francesi in Ita­lia e al volo li riassumo a pa­ro­le ai colleghi parigini, i quali prendono appunti e poi estendono gli articoli veri e propri. Molti infernali ed eccitanti giorni così, intanto che scrivo dello sport francese, allora ancora “patito” da noi, che si prepara ai Giochi olimpici di Roma prossimi venturi.

Grazie al francese studiacchiato a scuola, perfezionato per conto mio da amante di Edith Piaf e affinato nei miei vagabondaggi giovanilissimi sulla Costa Azzurra e persino con pretesti assortiti a Pa­rigi, dove per prima cosa andavo a vedere “les danseuses nues” del Concert Mayol, teatrino osé, io italianuccio del paese della tetta coperta, faccio un buon lavoro. Mi premiano lasciandomi in Fran­cia, a seguire il Tour (nel 1959 avevo seguito il mio primo Giro, in quel 1960 il lavoro presso L’Equipe si era sovrapposto alla corsa rosa). Vince Gastone Nen­cini nel nome di Fausto Cop­pi, Defilippis e Battistini e Pambianco sono bravissimi pure loro, produco una montagna di articoli che piacciono anche perché vengono letti da gente bene predisposta dai successi italiani nella corsa gialla. E mi mandano, ancora una sorta di premio al posto dello stipendio sempre smilzo, ai Giochi di Roma, dove il nostro ciclismo vince tantissimo e dove il mio Livio Berruti, amico fraterno e pure compagno di scuola, conquista l’oro dei 200 metri: e ovviamente io con lui ho vita giornalistica facile.

A Roma mi permetto persino di “vilmente” tifare perché la Francia dello sport sostenuto dallo stato non faccia buone cose: e infatti vince soltanto un oro nell’equitazione, l’ultimo giorno, dopo che per due settimane mi sono goduto le facce deluse dei colleghi francesi. Mi spiace per il paese che amo, la patria dei lumi e della grande rivoluzione e di tante in­telligenze e di tanta libertà, oltre che di Jacques Anquetil e Edith Piaf e di grandi cibi e vini, ma so­no contento per i francesi tron­fi, anche giornalisti.

Tempo di Tour, amo sempre più la Francia ma non riesco a trovare simpatici i francesi, almeno quelli della grandeur permanente, go­duta e sofferta (“sono, siamo italiani di cattivo umore”: lo disse Jean Cocteau, uno di loro). Però devo a loro oltre che alla Francia questo articolo.
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