Un tema estivo che il ciclismo dovrebbe trattare, se non altro a puro scopo accademico, è questo: se sia o no opportuno studiare anche un calendario particolare, una serie di manifestazioni agonistiche che tengano conto della geografia della villeggiatura, casomai inventando un qualcosa di nuovo, come ha fatto la pallavolo che si è data il beach-volley, come sta tentando di fare il football con il calcetto da spiaggia. Naturalmente lo sport della bicicletta rischierebbe, in questa versione, di essere profondamente snaturato: perché perderebbe le sue connotazioni epiche primarie che sono anche il conflitto con la situazione climatica, l’adattamento ai vari tipi di strada, la scoperta di paesaggi sempre nuovi, la forte valenza geografica e non solo di un legame fra due località anche distanti. Perché è ovvio che questo ciclismo per località di villeggiatura dovrebbe essere un ciclismo lungomare, su circuiti brevi e dunque con molti passaggi, concedendosi ad uno speakeraggio disinvolto e se del caso anche un pochino gaglioffo, per arrivare alla gente che sta sulla sedia a sdraio, sotto l’ombrellone.
Molto probabilmente sarebbe lì per lì un successo, perché il villeggiante ha un vago senso di colpa a non far niente, a godersi la vacanza mentre tanti altri lavorano, e il ciclista con il suo sudore, se del caso anche con il suo afrore, questo senso di colpa farebbe accrescere, invogliando all’espiazione realizzabile appunto con il portare attenzione a quelle sante fatiche. Ma sarebbe anche un successo, come dire?, leggero, volatile. Una approccio, una presa di contatto, qualche applauso e basta da parte di una gente che deve praticare intensamente il riposo fisico e mentale, a costo di darsi alla demenza consumistica ufficiale. Mentre il ciclismo è sport che fa pensare, e pazienza se fa pensare anche al doping. Il ciclismo, o almeno il ciclismo vero, non è sport di svago, di rilassamento. Impone tematiche ardue, di sofferenza, di strafatica. Le gente lo sa, pensiamo definitivamente, e il ciclismo lungomare la potrebbe interessare blandamente, saltuariamente, ma potrebbe anche allontanarla decisamente perché le sue proposte sono davvero troppo lontane da quelle classiche e nobili del ciclismo “altro”.
E adesso una precisazione: pensavamo a tutte queste cose già l’anno scorso, convenuti a Camaiore per la presentazione di un libro, cerimonia che aveva coinciso con il Gran Premio che si corre ogni estate in Versilia e che ormai è quasi una classica, con un gran bell’albo d’oro. Ci eravamo sforzati di capire che cosa la gente oziante poteva capire di questi pazzi che spingevano sui pedali nelle strade di solito riservate allo sciabattare dei villeggianti, e che erano chiamati a dare spettacolo forte per giustificare il disturbo che arrecavano al grosso fluire vacanziero della vita di tutti i giorni. Ci pensiamo adesso per convenire con noi stessi, oltre che con gli eventuali lettori di queste righe, che l’idea del ciclismo lungomare sia persino più bella che intelligente, più semiteorica che semipratica. Ma va frequentata se non altro per tenere viva la voglia di sperimentazione.
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Certo che il ciclismo si trova ad un bivio autenticamente esistenziale, dovendo semplicemente e terribilmente scegliere se adoperarsi al massimo per restare se stesso oppure adoperarsi al massimo per cambiare, per cambiarsi. Un dubbio esistenziale che diventa resistenziale, nel senso che il ciclismo è assediato, “malmenato” dallo spettacolarismo di tanto altro sport: con il rischio che se questo altro sport cerca di seguire, di inseguire, fa delle figure fantozziane (di chi si vuole vestire da Rambo essendo nato san Francesco), se decide di andare sempre per la sua solita strada rischia di trovarsi in un posto dove non c’è più nessuno. È un problema enorme, vitale. Si pensi allo sport in teoria più semplice di tutti per quel che riguarda l’uniforme da gara, cioè il nuoto, in pratica tuffatosi adesso nella tecnologia più spinta, più interessante ma anche più ammorbante, con quella faccenda dei costumi speciali confezionati con un avveniristico tessuto che comprime certi muscoli, rendendoli più funzionali e intanto meno esposti alla invasioni dell’acido lattico, cioè all’handicap che si chiama stanchezza. Dove sta andando, dove arriverà il nuoto?
Proviamo ad andare comunque avanti in questa tematica della scelta innovativa, e pazienza se suscitiamo nostalgia del “ciao mama” di cui almeno si capiva tutto. Il ciclismo deve fare la scelta, e la confusione esistente nei suoi organismi massimi, cioè federazione internazionale, federazioni nazionali, organizzatori e si capisce pedalatori, confusione che spesso si evolve in guerra, certamente non aiuta. La scelta fra la difesa dell’epica e l’abbandono di essa, fra il ciclismo delle grandi montagne e il ciclismo lungomare, deve essere fatta o quanto meno discussa: anche perché non ci sono abbastanza ciclisti forti e capaci e validi attori per praticare entrambe le strade, recitare entrambi i copioni. E non importa che la scelta sia già stata fatta dentro i cuori, nel senso che chiunque deve dire che da ciclofilo ama lo Stelvio più del litorale di Ostia: è nella pratica o almeno in prospettiva che deve essere fatta. Per esempio una Sanremo deve cercare un percorso sempre più duro e sempre più epico, partendo però per ragioni di chilometraggio fuori dalla metropoli, come la Parigi-Roubaix che di Parigi non ha più nulla, o deve conservare il suo diritto a solcare le strade milanesi, e pazienza se partendo dalla periferia?
In linea di massima, le grandi prove a tappe stanno sacrificando un bel po’ dell’epica classica (casomai frequentata in versioni sadomaso e un pochino bieche della fatica), a pro di innovazioni organizzative che prevedono ad esempio partenze strane e da posti strani, e pazienza se i ciclisti devono fare ore e ore di trasferimento extracorsa. Manca comunque una ideologia chiara, una programmazione, si naviga a vista, se domani viene fuori un’offerta per una cronoscalata alla collina dove sta la scritta Hollywood si fa festa e si vola a Los Angeles.
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