De Marchi: «Fughe e lavoro per il team, pronto per un grande Giro»

di Federico Guido

In un mondo sempre più veloce, pervaso da una frenesia latente dove tutto viene cercato e fruito in pochi istanti, avere la possibilità di incontrare e parlare con persone come Alessandro De Marchi può avere un effetto incredibilmente benefico. Non capita infatti tutti i giorni di imbattersi in uomini come il “Rosso di Buja”, 38 anni il prossimo 19 maggio, che si prendono il tempo e la giusta premura per soppesare le pa­role, calibrare i concetti e ordinare correttamente i propri pensieri, tutte operazioni queste quasi di un altro tempo che però fanno sì che ogni sua risposta appaia seriamente ponderata e che, so­prattutto, abbia quei secondi per rimanere, permeare e non scivolare via in un lampo. È così che, poco prima del via da Levico Terme dell’ultima frazione del Tour of the Alps 2024. manifestazione che l’ha visto tornare al successo dopo più di due anni e mezzo imponendosi nella seconda tappa, ab­biamo aperto con lui un’ampia finestra sul prossimo Giro d’Italia ma non solo, raccogliendo sensazioni e impressioni sul suo stato di forma, sul suo avvicinamento, sull’evoluzione della corsa, su­gli altri italiani al via dell’edizione 2024 e, anche, su un atteso compagno di squadra, nonché connazionale, col qua­le dividerà le fatiche della settima Cor­sa Rosa della sua carriera: Filippo Za­na.
Innanzitutto, partiamo dalla vittoria conquistata a Stans nella seconda tappa del Tour of the Alps. Che consapevolezze ti dà questo successo in ottica Giro d’Italia?
«È una conferma di ciò che, a partire dal ritiro fatto ad Andorra, avevamo iniziato a percepire nell’ultimo periodo ovvero che abbiamo fatto le cose per bene e anche che, con un po’ di fortuna e coincidenze favorevoli, certi risultati possono arrivare prima di quando uno si aspetti».
Immaginiamo che al Giro, in base a quello che hai detto e alla tua generosità, ti vedremo impegnato su due fronti, ovvero attaccare ed essere protagonista quando lo riterrai opportuno e allo stesso tempo dare una mano ai tuoi compagni.
«Sì, questo è sempre stato il mio ruolo qui e mi va benissimo. Non sono uno che dice “penso solo alle mie fughe o alle mie cose” ma so che il team ha bisogno, in certi frangenti, di essere aiutato e guidato. Fin da subito quindi, con la Jayco AlUla, abbiamo lavorato in questa maniera e il fatto che abbiano affidato a me questo ruolo mi rende orgoglioso e felice».
A proposito dei compagni, in squadra hai Filippo Zana: cosa pensi di lui, come lo vedi, che tipo di ragazzo è?
«È così come lo vedete da fuori, un ragazzo molto sem­plice, tranquillo, con le idee chiare e la testa dura. Forse pe­rò una delle sue qualità più grandi, che non è così facile trovare nei giovani in questi tempi, è che sa ascoltare e sa co­gliere, secondo me, le opportunità che gli capitano anche a livello di rapporti umani. Nella nostra squadra ci sono tante persone che, e ovviamente non parlo solo del sottoscritto, possono in­segnargli e dargli qualcosa e lui, a mio avviso, è uno dei giovani che più sfrutta questa possibilità e, ripeto, non è una cosa scontata».
C’è qualcosa di te che rivedi in lui?
«Lui, dalla sua, ha sicuramente un mo­tore e forse anche una determinazione, una convinzione più alte di quelle che, facendo un paragone, avevo io nei miei primi anni quindi fondamentalmente siamo “animali” un po’ diversi. Sta pe­rò facendo un percorso graduale e co­stante e in gara è uno che, quando sta bene, non ha paura di rischiare, di espor­si e dunque forse, da questo pun­to di vista, mi posso rivedere un po’ in lui. Il fatto che non sia esploso da un giorno all’altro e non sia una stella ca­dente è una cosa, secondo me, molto importante pensando al suo futuro».
Immagino sia importante anche per il ci­clismo italiano...
«Sì, ovvio. Adesso non è facile per i giovani approcciarsi nel modo in cui lo ha fatto Filippo perché ormai ti viene chiesto tutto molto rapidamente. Lui però, secondo me, ha avuto il coraggio di fare le scelte giuste e arrivare ad impostare la crescita graduale che sta avendo».
Tornando al Giro, un po’ tutti si chiedono se la presenza di Pogacar possa uccidere la corsa.
«Questo dovete chiederlo a lui perché le probabilità ci sono, non è impossibile che già ad Oropa sistemi tutti e met­ta ciascuno al suo posto. È tutto nelle mani della UAE, noi possiamo farci ben po­co».
Allargando lo sguardo, quali altri ragazzi italiani secondo te, tra quelli che hai visto al Tour of the Alps e al di fuori, possono far bene?
«Ci sono sicuramente i ragazzi della VF Group Bardiani CSF Faizané, con Pellizzari che ha dimostrato nella tappa di Schwaz sotto la pioggia e in condizioni difficili non solo di avere le gam­be ma anche una certa dose di coraggio che non è così facile da trovare, e an­che quelli ragazzi del Team Polti-Ko­meta. Matteo Fabbro credo si stia avvicinando al Giro in maniera molto graduale e quindi potrebbe essere una bella sorpresa andando avanti, soprattutto nel finale della terza settimana. Poi c’è il mio conterraneo, anzi il mio compaesano Jonathan Milan che punterà sicuramente a qualche buona tap­pa e alla maglia ciclamino... diciamo che le prospettive, secondo me, sono buone: dovremo avere pazienza e non farci prendere la mano».
Hai citato l’avvicinamento di Fabbro, nel tuo invece hai cambiato qualcosa? Hai fatto qualcosa di nuovo?
«No, quest’anno ho ripetuto esattamente quello che feci nel 2021, se non sbaglio, ovvero blocco in altura e Tour of the Alps prima del Giro. A livello generale, dunque, non è cambiato granché, sono cambiati alcuni dettagli, il tipo di lavoro, gli allenamenti ma questo è inevitabile perché altrimenti sarebbe difficile essere competitivi».
Dal primo Giro che hai corso nel 2011, invece, come trovi sia cambiata la corsa a livello di organizzazione, percezione e immagine?
«Il Giro continua ovviamente a crescere come organizzazione e come evento perché, anche questo, fa parte del cambiamento che sta vivendo il ciclismo. È molto più sotto i riflettori a livello me­diatico, c’è sicuramente molta più at­tenzione su di noi e quin­di forse anche più re­spon­sabilità nel gestirla. Però poi fondamentalmente, co­me di­cono gli in­glesi, il “dramma’ che na­sce ogni volta al Giro rimane quello, tutte le storie che nascono strada fa­­cen­do, le cadute, le crisi, le imprese e le vittorie, sono sempre quelle. E per fortuna, oserei dire».
Uno degli argomenti che ogni volta, parlando della Corsa Rosa, fa più discutere è il percorso. In un tuo Giro ideale, se fossi tu a organizzarlo e a disegnarlo, cosa o quali località non dovrebbero mancare?
«È difficile dirlo perché alla fine ci sono senza dubbio posti a cui uno è più legato di altri. Di sicuro mi piacerebbe vedere un Giro sempre con tappe lunghe perché, anche se so che for­se la gente non gradirebbe, per co­me sono fatto io e per quello che è il mio modo di correre sicuramente sa­rebbero le più adatte per me. Mi devo poi ricredere sull’arrivo a Roma, perché l’anno scorso è stata una bella esperienza. Di sicuro è una città piuttosto lontana da ogni montagna su cui di solito si finisce la terza settimana, quindi da un punto di vista logistico non è semplice da gestire, ma am­metto che avere la tappa finale a Roma nel 2023 è stato davvero uno spettacolo per tutti. Per il resto non mi sento di preferire un posto rispetto a un altro. Il Friuli? Non lo dico neanche, per me è scontato che ogni anno almeno una tappa debba averla, è un must, questo è sicuro».
A questo proposito, la tappa con arrivo a Sappada l’hai cerchiata in rosso?
«Conosco il percorso e sulla carta può essere una buona tappa per me ma pri­ma ci sono 18 frazioni da percorrere, vediamo».
Una ragazza che a Sappada vive e che il tracciato della 19ª tappa lo conosce molto bene è Lisa Vittozzi, ampionessa del mondo nell’individuale e vincitrice dell’ultima Coppa del Mondo di biathlon. Tempo fa lei mi ha detto che “visitare il Friuli è un’esperienza che va fatta”: sei d’accordo?
«Ovviamente sì. Abbiamo la particolarità che puoi svegliarti al mare al mattino e la sera essere in montagna. Non è così scontato. In mezzo poi, ovviamente, c’è tutta la parte collinare... insomma abbiamo davvero tanto da far vedere. Poi forse siamo ancora una regione un po’ lontana dai grandi centri urbani, dalla grande confusione del nord e del­la Pianura Padana e, secondo me, do­vremmo tenerci stretta questa nostra “distanza” perché ciò rende la nostra terra un posto dove, come qualità della vita, oggi si può stare bene. Perso­nal­mente quindi non punterei troppo a imitare le regioni limitrofe a livello di turismo di massa. La visibilità fa sempre comodo però non mi piacerebbe un Friuli che copia il Trentino-Alto Adige, punterei più che altro a mantenere le nostre caratteristiche e mostrarle per come sono».
Un tema di stretta attualità è quello delle cadute. Daniel Oss ci ha detto che è qualcosa da imputare a una serie di fattori, non ad un’unica causa. Sei d’accordo? Co­me, secondo te, si potrebbe rimediare?
«Assolutamente d’accordo, è dovuto a un mix di cose. Il livello a cui corriamo oggi or­mai è molto più alto, andiamo più forte perché siamo più forti, i materiali sono migliori e più performanti: tutte queste cose fanno la differenza. Affrontare il problema sicurezza è complicato, bisogna prendere in esame la questione da vari punti: si do­vrebbe iniziare a ragionare sui percorsi in mo­do diverso rispetto a dieci anni fa. In MotoGP o nella F1 è successo perché, dove una volta avevi il mu­retto a ridosso della pista, adesso trovi la via di fuga. Biso­gnerebbe ra­gionare in questo ordine di idee e poi ovviamente anche tra i corridori dovrebbe svilupparsi una consapevolezza diversa».

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