Ciccone: «Vado all'attacco e mi diverto»

di Giulia De Maio

Arriva il Giro e noi siamo su di giri. Non stiamo nella pelle all’idea di vivere tre settimane di puro spettacolo attraverso la nostra bella Italia. Siamo felici come bambini che saltellano in girotondo e con questo spirito leggero e gioioso abbiamo coinvolto uno degli italiani più attesi per la prossima corsa rosa, Giulio Ciccone. Il 26enne scalatore della Trek Segafredo è un corridore istintivo, che getta il cuore oltre l’ostacolo, amato proprio per il suo estro, che corre e vive “a ruota libera”, un girovago a cui i tifosi non possono che voler bene.
Frenarsi e risparmiarsi non sono parole che fanno parte del suo vocabolario, a differenza di quelle che gli abbiamo proposto per dare libero sfogo alla sua fantasia in una serata di relax a Sierra Nevada, dove in altura ha perfezionato la condizione in vista del suo primo grande obiettivo stagionale. Prima di fare sul serio però, il Geco d’Abruzzo è salito sulla giostra di tuttoBICI, con la consueta simpatia e profondità. Gira la ruota, godetevi il Cicco show.
G come Gioco
«Io sono un giocherellone e la bici è il gioco che ho sempre desiderato. La prima in assoluto mi è stata regalata dai miei genitori intorno ai 4-5 anni. Da quando sono nato non sono capace di stare fermo, ho sempre amato l’attività all’aria aperta, che si trattasse di dare quattro calci al pallone, di trascorrere ore in sella o in giro per il paese. La prima bici da corsa è arrivata quando avevo 7 anni, a 8 ho iniziato a ga­reg­giare. Non so che fine ha fatto la mia prima bici, la seconda è ancora in uso ai bimbi della squadra con cui ho iniziato, il team Teate di Chieti. Il pri­mo ricordo legato alla bici? Io che ri­schio di schiantarmi contro un palo della luce alla mia prima gara in assoluto, mi sono salvato saltando su un marciapiede. Il ciclismo negli anni è diventato un lavoro, ma non ho smesso di giocare. Nel tempo libero ora mi diverto con i lego e la playstation».
I come Italia
«Nell’anno olimpico non c’è parola più giusta. Tokyo2020 è un sogno, i Giochi sono il massimo che si possa raggiungere. A causa della pandemia avremo a che fare con una manifestazione super blindata e controllata, ma spero di cuo­re di farne parte. I cinque cerchi rappresentano il livello più alto che si pos­sa trovare, da ogni punto di vista. Sono profondamente legato alla maglia azzurra ma sono perseguitato dalla sfortuna, tanto che per una ragione o per l’altra non sono mai stato al via di un campionato del mondo, nemmeno nelle categorie giovanili. Ogni volta che ho l’occasione di far parte della Squa­dra succede qualcosa di incredibile che manda all’aria i miei piani. È successo anche nel 2020 quando a pochi giorni dal mondiale di Imola sono risultato positivo al covid, quindi ora cerco di re­stare concentrato senza guardare troppo in là. La prima volta che ho corso per la Nazionale è stata da Under 23 al Tour de l’Avenir 2014. Sono patriottico, fiero del mio paese, dello stile tricolore. Se avessi la possibilità di cambiare qualcosa nell’italiano medio punterei alla responsabilità delle persone. Non voglio generalizzare ma mi piacerebbe avessimo più cura del magnifico Paese che abbiamo».
R come Rivali
«Al Giro d’Italia ne incontrerò tanti. Se devo scegliere un favorito per il successo finale a oggi indicherei Egan Ber­nal (Ineos Grenadiers) perché è uno scalatore eccezionale. Sul podio con lui immagino per il suo potenziale immenso Remco Evenepoel (Deceu­ninck Quick Step), giovanissimo e fortissimo, anche se essere competitivo dopo otto mesi senza corse è difficile, e Vin­cenzo (per chiarezza, questa intervista è stata realizzata il 15 aprile, il giorno dopo l’incidente in allenamento che ha causato a Nibali la frattura del radio destro e messo a rischio la sua partecipazione alla corsa rosa, ndr). Mi immedesimo in lui, negli ultimi mesi ha dato l’anima, ha fat­to tutto al meglio, il Giro era la sua rivincita. Sarà furioso e farà di tutto per riprendersi in tempi re­cord. Per il motore che ha e il professionista che, è sono convinto al Giro ci sarà e, ovviamente, non da comparsa».
O come Ostacolo
«Sulla mia strada ne ho incontrati pa­recchi finora. Da ragazzino ho provato la paura del terremoto, tra il 2016 e il 2017 mi sono dovuto sottoporre a due interventi di ablazione cardiaca per eliminare le tachicardie di cui soffrivo, negli ultimi anni ho imparato cosa vuol dire lottare contro un maledetto tumore come quello che mia mamma sta combattendo, e per ultimo è arrivato il covid. Dicono che le difficoltà aiutano a crescere, io sono d’accordo in parte. Moralmente sono delle mazzate e quando ne ricevi tante in poco tempo rialzarsi è difficile. Ho imparato che non si può avere il controllo di ogni cosa. L’ultimo esempio l’ho avuto alla Volta a Catalunya, a cui mi presentavo in crescita dalla Tirreno-Adriatico e fiducioso per il prosieguo della stagione, ma dal nulla ho iniziato a soffrire per una tendinite al ginocchio de­stro. A un mese dal Giro, il Giulio di qualche anno fa si sarebbe innervosito di più, invece mi sono messo subito all’opera per risolvere il problema. Se ho perso solo quattro giorni di allenamento gran parte del merito è anche del team, che si è subito mobilitato. A partire da Lu­ca (il team manager Guer­ci­lena, ndr) che è sempre presente, Josù (Larra­za­bal, ndr) che non è il semplice preparatore del quale seguire le tabelle ma un faro, una persona di fiducia, che sento ogni giorno, allo staff con osteopata e massaggiatore che sono stati la mia salvezza. Se puoi contare su una struttura forte, gli imprevisti li risolvi decisamente più facilmente».
D come Dante
«Dagli studi ricordo giusto... il cognome: Alighieri. Bat­tu­te a parte, ai tempi della scuola l’unica materia che mi piaceva, oltre a quelle pratiche, era geografia: per il resto ero messo male, compreso storia e letteratura. Dietro al banco faticavo come nelle cronometro, ma il diploma da geometra l’ho portato a casa. A proposito di Divina Com­me­dia in prospettiva Giro, per tutto quello che ho passato, mi merito come minimo il paradiso (ride, ndr). Nella cultura italiana e meridionale mi ci riconosco, soprattutto nei valori di altruismo e gentilezza. Sono uno che si preoccupa tanto per gli altri, di cuore. Do confidenza, ho un carattere aperto, tutt’altro che schivo. Quest’anno si celebrano i 90 anni della maglia rosa e sarà bellissimo celebrarli tornando a correre a maggio. Non ho studiato nel dettaglio il percorso, come Vincenzo sono uno che preferisce vivere alla giornata e una tappa per volta, ma la prima che mi viene in mente è quella di Campo Felice, nel mio Abruzzo e adatta a me. Nell’ultima settimana ogni giorno sarà cruciale visto che ci aspettano tantissime montagne, a partire dallo Zoncolan, che avrà ancora una volta un impatto morale e fisico non indifferente su tutti i girini».
Cos’è un bacio? “Un apostrofo rosa fra le parole t’amo, un segreto detto sulla bocca” come diceva il poeta Edmond Rostand o “Il marketing è l’apostrofo rosa tra le pa­role “Quant’è” dell’umorista Walter Fontana.
«Questa è difficilissima! Diciamo che per quanto riguarda i baci al momento punto a quelli delle miss al Giro e con i soldi ho un rapporto sano. È inutile ne­gare che sono fondamentali nella vita di ognuno, ma possono anche creare problemi. Sono un’arma a doppio ta­glio: ti possono togliere la “fame”, ap­pagare. Per raggiungere grandi traguardi non ci si può sedere, bisogna sempre avere voglia di migliorarsi. All’aspetto economico io guardo il giusto, davanti ci metto la prestazione».
A proposito di soldi, facciamo un gioco nel gioco: non hai limiti di budget, allestisci una squadra di fantaciclismo.
«Bella questa! Allora, partiamo dal ve­locista: Caleb Ewan. Come capitani scelgo Geraint Thomas ed Egan Ber­nal, come gregariaccio di lusso Ro­han Dennis, utile per le crono affiancato al campione del mondo di specialità Filippo Ganna. Per le classiche mi ten­go stretto il mio compagno Jasper Stuyven, vincitore della Milano-San­remo, e Peter Sagan, che può tutto. Per arrivare a otto come i partecipanti per squadra alla corsa rosa ci vuole Cic­cone, che tiene alto il morale del gruppo».
I come Istinto
«Ormai mi conoscete, è una caratteristica peculiare del mio carattere. Non sono uno capace di stare fermo, e non intendo solo in gara. Ho l’argento vivo in corpo, sono iperattivo, dopo l’allenamento non sono abituato a stare gam­be all’aria tutto il pomeriggio. Finora l’istinto mi ha dato tanto e tolto qualcosina, voglio tornare a sfoggiarlo in corsa: gestirsi in un evento di tre settimane è fondamentale, se non mantieni la calma rischi di buttare all’aria tutto, ma controllarmi troppo non mi piace. Non è da me. In questo Giro voglio tornare a sentirmi come nel 2019: vo­glio attaccare, divertirmi ed entusiasmare. A dirla tutta avverto sensazioni simili a quelle di due anni fa e, dopo una stagione da dimenticare, mi auguro che il 2021 mi regali delle belle emozioni come quelle uniche provate tra quel Giro e Tour che hanno segnato la mia carriera».
T come Trek Segafredo
«La squadra con cui continuerò a pe­da­lare fino al 2024. Nella mia testa c’era il desiderio di investire tutte le mie energie in un progetto a lungo termine. Per fare il salto definitivo di qualità devi allineare diverse esigenze, pri­ma di tutto ambiente e anche solidità tecnica. Non ho mai avuto dubbi sul fat­to che continuare con la Trek-Se­gafredo fosse l’opzione migliore per il mio futuro. Siamo un bel gruppo. Vado d’accordo con tutti e in squadra ho trovato anche la mia controfigura: Juan Pedro Lopez. Lui è spagnolo e ha qualche anno in meno di me ma abbiamo subito legato perché siamo molto simili. Insieme ridiamo sempre, anche quando siamo morti per la fatica non la smettiamo di scherzare, abbiamo en­trambi la battuta sempre pronta. Ci assomigliamo anche in gara: siamo due attaccanti, la grinta non ci manca. Un valore aggiunto del gruppo è dato dalla formazione femminile. Siamo un’unica grande famiglia ed è bello in ritiro confrontarsi ma anche fare due semplici chiacchiere con le ragazze».
A come Abruzzo
«La mia terra, a cui sono profondamente legato. Da qualche anno abito a Monaco ma casa è sempre casa. È dove ci sono mamma Silvana e papà Ro­ber­to, gli amici di sempre, a partire da Mar­­co, che per me è più di un fratello, mi dà tranquillità come nessun altro, tanto che me lo sono portato in ritiro a Sierra Nevada per avere un po’ di compagnia e supporto. Ha corso nelle categorie minori, conosce il ciclismo, ma soprattutto è un amico vero, quindi come braccio destro non potrei desiderare di meglio. Quando torno in Abruz­zo, in occasione del mio compleanno (20 dicembre, ndr) e delle feste di Natale cascasse il mondo, c’è sempre da mangiare un po’ di più e bene, ma soprattutto ci sono i miei affetti. Quando sono lontano mi manca andare in montagna e da lì vedere il mare, le mie strade, le salite sulle quali sono cresciuto, le mangiate in compagnia. Così quando torno percorro i miei circuiti preferiti e organizzo al volo una bella tavolata e via di carne e pesce alla brace. Sono cresciuto così, sono queste cose semplici che mi fanno stare bene e recuperare di testa».
L come Leone
«Di pelouche dal Tour de France 2019 ne ho portati a casa due: uno l’ho regalato a mamma che al mio ritorno dalla Francia era ricoverata in ospedale e ora è in bella mostra nella sua vetrinetta a casa, insieme alla maglia gialla, l’altro ce l’ho nel mio appartamento di Monte Carlo. Di quei giorni ricordo che pedalavo e tutto mi riusciva facile. La sensazione bella di godere nella fatica, di stare bene, di quando tutto gira nel verso giusto. Sono periodi rari, che non durano a lungo ma quando arrivano è uno spettacolo perché il gran lavoro che li ha preceduti viene ripagato appieno. Quella stagione fu magica. Per quest’anno sono concentrato su Giro e Vuelta, ma anche per il futuro non penso di tornare alla Grande Bou­cle per provare a vincerla. Sulla parete bianca di casa ho la maglia gialla incorniciata su uno sfondo nero e mi capita di fermarmi in cucina a guardarla come uno scemo, pensando che bello sarebbe poterne esporre accanto una rosa. Al Giro quest’anno mi presento convinto, con condizione e mentalità al top e le stesse sensazioni di due anni fa. Sono al cento per cento. Sarò il jolly della squadra, sulla carta Vincenzo e Bauke si occuperanno della classifica, io punterò alle tappe».
I come ITT (individual time trial)
«La cronometro è il mio tallone d’Achille ma con il mio preparatore sto svolgendo lavori specifici. Magari in gara non si sono ancora notati i miei progressi in termini di risultati ma come valori sto migliorando. I watt ci sono, spingo a dovere ma ancora non sono veloce quanto vorrei, abbiamo margini di miglioramento per quanto riguarda l’aerodinamica e la posizione. Tra la corsa rosa e la Vuelta lavoreremo in galleria del vento e ci applicheremo ancora di più. Gra­zie anche all’apporto dei professionisti del Centro Ricerche Mapei Sport curiamo tutti i dettagli in modo meticoloso. Per quanto riguarda l’avvicinamento al Giro, ho svolto bene o male lo stesso calendario di due anni fa, gli stessi ritiri, gli stessi allenamenti più di qualità che di quantità. Non abbiamo cambiato nulla, il piano è lo stesso, ho solo qualche anno in più».  
A come Amore Infinito
«È quello che provo per la mia famiglia, il mio sport, per questa corsa e i suoi tifosi. Correre il Giro mi dà emozione perché lo seguivo da bambino e l’ho sempre sognato. La prima volta che lo vidi passare sotto casa fu però un trauma: ero piccolissimo, a Chieti diluviava, il gruppo doveva affrontare due tornanti scivolosissimi. I corridori, da Cipollini in giù, arrivarono e caddero come birilli davanti ai miei occhi. Mi spaventai un sacco, piangevo, nascosto dietro le gambe di papà. Nonostante quell’episodio mi innamorai del ciclismo, di questa corsa, dei suoi colori e dei suoi fans. Sono molto legato ai tifosi, influiscono tanto su di me, non so se è un bene o un male, ma quando ricevo una critica la prendo un po’ sul personale, se sento una bugia sul mio conto mi colpisce, tanto quanto ap­prezzo i complimenti. L’opinione degli altri non mi è indifferente. Tra i campioni che hanno fatto la storia del Giro un posto speciale nel mio cuore ce l’ha Marco Pantani. Di recente sono stato da Fabrizio Borra, il suo fisioterapista storico, che ringrazio pubblicamente perché mi ha rimesso in piedi in po­chissimi giorni. Al Fisiology Center di Forlì c’è esposta la bici del ’99 del Pirata, alcune maglie, bandane e cimeli. Vivo circondato da bici, vederle ormai mi è indifferente, ma quella l’ho fissata per cinque minuti per catturare ogni dettaglio. Il Pirata mi prende, mi smuove qualcosa che nemmeno gli as­si del mo­torsport di cui sono fanatico riescono a trasmettermi».
2 come i miei tatuaggi
«Una bicicletta con il simbolo dell’infinito, che rappresenta il mio amore per questo sport, e una K con un cuore, che si porta dietro una storia lunga da raccontare. Dicono che averne un numero pari porti sfortuna, è da an­ni che un mio amico tatuatore mi dice che de­vo farmi il terzo ma non ho mai trovato il tempo. Imprimermi sulla pelle un ricordo legato a una grande corsa potrebbe essere una buona idea, ci penserò. Tra qualche mese potrebbe concretizzarsi un’idea per il terzo... Due sono anche i miei capitani per il Giro: Ni­bali e Mollema, due uo­mini esperti dai quali posso solo imparare. Di Vincenzo abbiamo parlato in più occasioni, abbiamo tante passioni in comune, parliamo più di motori e meccanica che di ciclismo quando siamo insieme. Con Bauke ho condiviso il Giro e il Lombardia 2019 così come altre sue vittorie, lo stimo tanto perché è tra i corridori più professionali del gruppo. Riesce ad essere competitivo tutto l’anno, è uno dei migliori, mi piace lavorare con lui, c’è grande intesa in corsa, anche se siamo molto diversi. Io sono il classico “terrone”, mi piacciono la compagnia e il casino, lui da buon uomo del nord è più silenzioso, preciso, ordinato, riservato e ha sempre un libro in mano».
0 come il giorno zero
«Quello da cui parte ogni stagione, quello in cui si stilano i programmi. Dopo un anno surreale e da dimenticare, il giorno 0 per me è stato quando a metà gennaio ho iniziato il ritiro in Spagna con la squadra. A Denia ho resettato tutto, ritrovato la giusta mentalità e ripreso a lavorare mettendomi alle spalle quanto successo nel 2020. Ho debuttato al Tour de la Provence, a metà febbraio. Non ho svolto una preparazione esasperata per partire subito fortissimo. Ero spensierato e volevo fare fatica in gara, una cosa che mi man­cava. Nonostante questo, quasi vinco. Secondo nella seconda tappa. E sesto sul Ventoux, non male. Dopo il fastidio al ginocchio ho deciso di svolgere un blocco di lavoro lungo in montagna dal 10 al 26 aprile. In altura sono da solo, ma con uno staff tutto per me. I miei compagni sono stati sul Teide in precedenza e poi hanno preso parte al Tour of The Alps. I sacrifici per una grande corsa come il Giro non si contano, ma non mi pesano. Ultimamente mi sto concentrando sul peso più che in passato. Non ho mai guardato la bi­lancia ma con l’età bisogna iniziare a sta­re più attenti. Avendo svolto un buon lavoro in palestra in inverno, al Catalunya avevo 2 chili in più del previsto, ma a Torino sarò nel mio peso forma. Sto seguendo i consigli della nu­trizionista del team Stephanie Scheir­lynck, anche se non mi mette gli arrosticini nella dieta. 15-20 dopo l’allenamento secondo me sarebbero perfetti, altro che barrette proteiche (ride, ndr)».  
2 come le tappe
vinte finora al Giro
«Sestola 2016 a 21 anni da neoprof fu un’esplosione, un successo impensabile e inaspettato. Ponte di Legno 2019, nel giorno del Mor­ti­ro­lo, una liberazione dopo due anni abbondanti di vittorie sfiorate e sfuggite per poco. Il ricordo più forte che ho vissuto al Giro è stato l’ingresso all’A­re­na di Verona nel 2019 con la maglia azzurra di miglior scalatore. Il boato del pubblico insieme all’abbraccio di mamma e papà che mi aspettavano orgogliosi fu la fine di un mese perfetto. Un’emozione che custodirò per tutta la vita. La corsa rosa dell’anno scorso è stata un calvario, dopo il covid ero debilitato e la bronchite mi ha mes­so ko. L’edizione scorsa non voglio di­re che non faccia testo, non sarebbe il termine giusto perché chi ha vinto l’ha fatto con merito e i valori espressi sono stati ottimi, ma ora che si torna alla da­ta consueta... vedremo il “solito” Giro d’Italia e il livello sarà altissimo».  
1 come il numero che inseguo
«L’unico che conta, basta piazzamenti. Faccio parte di un team che ha sempre puntato sui giovani, gli investimenti pa­gano e ne stiamo raccogliendo i frutti. La vittoria è la finalizzazione di tutto, la chiusura del cer­chio, il puntino sulla i. Un atleta si sveglia, mangia, si allena, ragiona, lavora e va a dormire sempre pensando a lei. Quando ero ragazzino era diventata un’ossessione, dagli 8 ai 15 anni ero l’eterno piazzato. Un giorno vinsi una corsa, poi un’altra. Da allora ho sempre vinto poco ma bel­le gare, più qualità che quantità. Il successo ripaga ogni sacrificio. Tagliare il traguardo per primo ti fa sentire non di­co invincibile, ma forte e appagato. Sono riuscito a realizzare il sogno che avevo da bambino. Il piccolo Giulio ama­va il ciclismo, guardava ogni corsa in tv, conosceva ogni corridore, ora vi­ve in questo ambiente e si mantiene grazie alla bici. E non smette di giocare, come abbiamo fatto durante questa intervista. Cosa posso chiedere di più dalla vita? For­se di provare l’emozione di indossare la maglia ro­sa...».

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