Gilbert: «Ho ancora fame»

di Francesca Monzone

Quando si parla di grandi campioni che hanno fatto la storia del ciclismo, bisogna dedicare uno spazio speciale a Philippe Gil­bert. Il belga è un atleta fuori dal comune, di quelli che a 38 anni e con un palmares stellare continuano ad essere tra i favoriti in gara, ma che anche quando sono a casa il lavoro con la bici non lo lasciano mai.
L’elenco dei suoi successi è lungo: ol­tre al Mondiale vinto nel 2012, ha conquistato quattro delle cinque Classiche monumento. Un Giro delle Fiandre, una Parigi-Roubaix, una Liegi-Ba­sto­gne-Liegi e due Lombardia. All’appello manca solo la Sanremo, una sorta di ossessione per il fuoriclasse belga che, vincendola, entrerebbe in un ristrettissimo gruppo d’elite, formato solo da grandi campioni.
Nato in Vallonia nella provincia di Lie­gi, oggi Philippe Gilbert vive a Monaco di Baviera e, nonostante le temperature rigide, in queste settimane si è allenato 5 o 6 volte a settimana per un totale di 20 ore; tra qualche giorno sarà in Spa­gna per il primo ritiro stagionale con la sua Lotto Soudal. Il vallone ha perlomeno due grandi obiettivi stagionali: correre ancora una volta il Tour de France e finalmente rompere il tabù con la Classica di Pri­mavera.  
Meticoloso e ferreo nei suoi allenamenti, Gilbert anche durante i ritiri di gruppo effettua delle lunghe uscite da solo. Questo lavoro, unito alle grandi doti fisiche, gli ha permesso di diventare uno dei migliori corridori del suo tempo.
Al Tour de France è stato costretto a ritirarsi dopo la frattura del ginocchio. Com’è stato il recupero?
«È andato tutto bene, non posso la­mentarmi. Faccio ancora un lavoro specifico: poiché questo è stato un secondo incidente sulla stessa rotula, il recupero totale è più complicato, ma sono molto ben seguito e posso allenarmi co­me voglio. È sparita anche la tensione legata ai primi allenamenti, dovremo vedere come reagirà la gamba du­rante una gara, dove gli stimoli e le con­dizioni sono chiaramente diversi».
A causa della pandemia, il suo team Lotto Soudal ha deciso di non fare uno stage all’estero a dicembre, ma partirete questo mese divisi in tre gruppi separati. Cosa ne pensa?
«Per me va più che bene. Questi stage sono soprattutto preziosi per lo spirito di squadra che deve riattivarsi dopo una lunga pausa, anche se il lavoro che svolgo a Monaco non ha eguali».
Nel 2020, a causa del Covid e del suo in­fortunio, ha corso poco. Influirà questo sul­la nuova stagione?
«Non penso di aver mai corso così po­co, neanche quando ero un ragazzino. Chissà, magari potrò affrontare il 2021 con più freschezza. Una cosa è certa: l’appetito non mi manca. Ho ancora fame di vittorie».
Quali saranno i suoi obiettivi?
«È ancora presto per dirlo e verranno definiti con i nostri tecnici».
Lei ha disputato dieci edizioni del Tour de France. Lo scorso anno, per una caduta, si è ritirato al termine della prima tappa: parteciperebbe ancora alla Grande Boucle?
«Sicuramente rientra nella mia... fame di corse. Per tre anni sono stato sfortunato al Tour: sono caduto nel 2018 e nel 2020 e non sono stato selezionato nel 2019. Sarebbe un peccato se la mia storia di corridore alla Grande Boucle finisse con il ritiro dello scorso anno. Se potessi, mi piacerebbe tornare a correre in Francia».
Lei ha vinto quattro Classiche Monu­mento su cinque, manca solo la Sanremo. Cosa rappresenta per lei questa corsa?
«Non mi piace molto parlarne adesso. Questa gara resta fissa in un angolo della mia testa, ma non deve essere per me un’ossessione. E poi ci sono ancora alcune grandi gare da vincere nelle Fiandre, come l’E3 GP ad Harelbeke o la Ghent-Wevelgem».
La sua Lotto Soudal si è molto rinnovata:  quale ruolo avrà in squadra?
«Siamo praticamente un team in via di sviluppo e trasformazione con molti ragazzi giovani e inesperti che de­vono imparare tante cose. Sarà un anno di transizione, tutto da scoprire».
Il 2020 è stato un anno difficile con la pandemia legata al Covid-19, ma non so­lo. Se potesse scegliere, cosa cancellerebbe?
«Dal punto di vista personale nulla, ma da quello professionale è un anno da dimenticare. Ero nella condizione mi­glio­re quando sono andato al Tour de France, ma sono stato buttato fuori a causa di una caduta. Questo è veramente molto frustrante».
Guardando ai suoi risultati, lei ha vinto almeno una corsa in ogni stagione, ad eccezione del 2020, che ha chiuso senza successi. Anche questo è un motivo di frustrazione per lei?
«Come ho detto, nel 2020 la stagione è stata troppo breve e non ho nemmeno avuto il tempo di esprimermi, non so­no mai stato una sola volta al 100% delle mie capacità. È un peccato. Non sono uno che ha rincorso le vittorie, ma aver vinto almeno ogni anno fino al 2019 per me è motivo di orgoglio. Ho sempre privilegiato la qualità alla quantità, tanto che quasi tutti i miei successi sono arrivati in gare del World Tour».
Tralasciando le sue vicende personali, per il ciclismo che anno è stato questo?
«Il ciclismo si è adattato molto bene alla pandemia, dimostrando ancora una volta di essere uno sport capace e lungimirante. Anche se la situazione sanitaria dovesse rimanere complicata, tut­te le parti chiamate in causa riusciranno anche quest’anno ad essere ancora una volta all’altezza della situazione. È fantastico che il ciclismo sia stato in grado di portare avanti tre Grandi Giri. Senza ombra di dubbio, la bici è stata un esempio per tutti gli altri sport».
Si è parlato molto della sicurezza in corsa e lei è stato chiamato dal CPA e dall’UCI come portavoce dei corridori per partecipare agli incontri programmati. A che punto siete arrivati?
«Penso che tutti abbiano capito che ci sono cose che non possiamo e non dobbiamo più vedere. Ad esempio quello che è accaduto alla prima tappa del Tour de France a Nizza, dove il gruppo ha dovuto correre su una vera pista di pattinaggio a causa del maltempo. Oppure alla Milano-Sanremo quando ci viene chiesto di passare in gallerie non illuminate. Non è giusto e non deve più accadere, senza dimenticare - perché non si può - quanto accaduto nella prima frazione del Giro di Po­lonia».
Ci sono state polemiche anche riguardo alla caduta di Remco Evenepoel al Lom­bardia. Pensa che l’incidente potess essere evitato attuando delle norme di sicurezza diverse?
«La colpa non deve essere sistematicamente data agli organizzatori. Sappia­mo che il ciclismo rimarrà sempre uno sport molto pericoloso. Per vincere i corridori corrono dei rischi, a volte troppi. Remco è il principale responsabile del­la sua caduta, ha commesso un errore di guida. Se la curva che hai da­vanti è molto complicata, devi accettare il fatto che devi rallentare, come fa un pilota di F1 o di rally. È meglio sprecare qualche secondo che rischiare un in­cidente. Le faccio un esempio: nel 2018 io sono stato il solo responsabile della mia caduta al Tour nella discesa del passo Portet d’Aspet».
Evenepoel, fa parte di una giovane generazione che ha scandito mo­menti importanti nel 2020 e insieme a lui anche Po­ga­car. Cosa pensa di que­sta “nouvelle va­gue” di corridori tutto ta­lento e intraprendenza?
«Remco è il si­gnor 100%: non ha praticamente mai perso nel 2020. È mol­to teatrale nella sua co­mu­ni­cazione, e posso an­che comprenderlo, ma questo tipo di atteggiamenti co­min­cia a non piacere a molti. Po­ga­­car è eccezionale e in­sieme a tanti altri gio­­vani rappresenta un ci­clismo pieno di brio, molto vitale. È bello vederli».
Parlando dei suoi connazionali c’è Wout van Aert che molti vedono come possibile vincitore di un Grande Giro. Anche lei è di questa idea?
«Wout Van Aert è stato senza dubbio uno dei grandi protagonisti della scorsa stagione. Per puntare alla classifica generale in un Grande Giro dovrebbe calare di qualche chilo e questo, forse, lo porterebbe a perdere esplosività. Al suo posto proverei a vincere prima tut­te le classiche perché, a parte forse il Lombardia, lui è uno di quei corridori che può vincere ovunque».

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