Villa da Oscar

di Giulia De Maio

Il Commissario Tecnico della pista Marco Villa si aggiudica l’Oscar tuttoBICI Gran Premio Fondazione Iseni quale miglior direttore sportivo italiano 2020. Affidandosi al giudizio insindacabile di coloro che nella storia hanno conquistato questo premio, la nostra redazione ha selezionato una rosa di cinque tecnici tra i quali l’ha spuntata “a mani basse” il 51enne cremasco: 40,2% dei voti per lui che ha messo d’accordo tutti. Premiato dai lettori, ma anche da colleghi e atleti che lo apprezzano da sempre, si merita che le luci della ribalta siano puntate su di lui e quel fantastico gruppo azzurro che mira dritto a Tokyo 2021. Villa è uno degli uomini più importanti nell’esplosione di Filippo Ganna, la stella azzurra più luminosa di quest’annata tribolata e ha il merito di aver rivitalizzato e portato all’eccellenza mondiale un settore che in Italia languiva.
Cosa rappresenta per te questo premio?
«Mi fa piacere che per la prima volta venga premiato un tecnico della pista. Io prima l’ho praticata, ora la predico. Ho sempre cercato di far capire che non è nociva, i risultati hanno dato credibilità al mio mantra: strada e pista possono convivere. Condivido questo Oscar con la mia famiglia, con la FCI e tutto lo staff della squadra azzurra. Insieme ai miei collaboratori, ai massaggiatori e ai meccanici, abbiamo co­struito un gruppo che, lavorando sodo, avrebbe dovuto trovare l’epilogo a Tokyo qualche mese fa. L’appun­ta­men­to olimpico è slittato di un anno, ma nessuno di noi ha perso di vista l'obiettivo».
Quindi niente vacanze.
«Siamo tornati dalla Bulgaria dopo settimane travagliate. Quella degli Eu­ro­pei doveva essere una trasferta bellissima: Pippo andava fortissimo, aveva una gamba incredibile ed era motivato a battere il muro dei 4 minuti, insieme agli altri componenti il quartetto avrebbe potuto far registrare un ulteriore buon tempo, invece il coronavirus ci ha dimezzato. Ad ogni modo l’Italia a Plov­div è salita 14 volte sul podio, finendo al terzo posto nel medagliere (dietro a Gran Bretagna e Russia), impiegando tanti e tante giovani. Dopo una o due settimane di ferie c’è chi ha ricominciato ad allenarsi, come Con­son­ni che mi ha già contattato per girare a Montichiari, chi invece ha staccato più tardi sta riposando. Io sono sempre qua, a disposizione».
Partiamo dagli inizi, come hai scoperto il ciclismo?
«A 10 anni sono stato messo in bici da papà Ettore. Non aveva mai praticato ciclismo ma era molto appassionato e da buon milanese di quegli anni mi portava al Vigorelli e al Palazzo dello Sport di San Siro per vedere le Sei Gior­ni, oltre che a gareggiare in settimana ai velodromi di Fiorenzuola, Dalmine o Varese e nel fine settimana su strada».
Il ricordo più bello della tua carriera da ciclista?
«Più passa il tempo, più mi vengono in mente episodi che acquistano valore. Oltre all’Olimpiade di Sydney 2000 do­ve vinsi la medaglia di bronzo con Sil­vio Martinello nell’Americana (specialità di cui sono stati due volte campioni del mondo a Bogotà 1995 e Man­che­ster 1996, ndr), ricordo bene anche av­venimenti che sul momento giudicai negativi e ora valuto sotto un’altra luce come l’esclusione dalla selezione per Barcellona 1992, nonostante ci fosse il blocco olimpico per i dilettanti che mi aveva costretto a rifiutare la proposta che avevo ricevuto per passare professionista. Con il tempo ho imparato a fare tesoro anche dei momenti no e, avendoli provati sulla mia pelle, posso usare la mia esperienza come esempio con i ragazzi che oggi si giocano i po­chi posti a disposizione per i grandi ap­puntamenti».
Una volta sceso di sella, come sei passato dall’altra parte?
«Grazie al presidente della FCI Renato Di Rocco che nel 2009 mi ha proposto come collaboratore di Colinelli. Mi è dispiaciuto quando Andrea è stato di­smesso dall’incarico, con lui ho lavorato bene. Mi ha permesso di entrare in punta di piedi e di accumulare esperienza per poi andare avanti da solo dal 2011 in poi. Non è stato facile prendere in mano la Nazionale, allora si prendevano delle gran legnate. Avevamo atleti interessanti ma bisognava farli crescere con una nuova metodologia. Avevamo bisogno di cucirci un cappotto a nostra misura. Avendo a disposizione stradisti dovevamo sfruttare le loro qualità, allenarli tenendo presente le loro caratteristiche, non stravolgendole come se avessimo a che fare con dei pistard a tempo pieno. Man mano abbiamo trovato la giusta dimensione e ora ne stiamo raccogliendo i frutti».
Chi ti ha insegnato il mestere?
«Ho imparato da tutti i tecnici con i quali ho avuto a che fare, tanto da quelli che mi hanno promosso quanto da quelli che mi hanno messo in panchina. Tra i miei maestri inserisco Da­rio Broccardo e Sandro Callari, ma davvero ho appreso da chiunque ho in­contrato lungo il mio percorso. Anche se le metodologie di allenamento sono cambiate, da ognuno ho immagazzinato come gestire la squadra, impostare una stagione e un ciclo olimpico. Tra­scorrendo insieme quattro anni o più si insegna e impara tanto sia da atleta che da tecnico».
L'emozione più forte vissuta finora a bordo pista o in ammiraglia?
«Non posso limitarmi a una perché ho avuto la fortuna di provarne tante. A partire dal successo di Elia Viviani a Rio 2016, dopo essere passati per la de­lusione di Londra 2012, dove eravamo primi fino all’ultima gara e poi ab­biamo perso. Dopo 4 anni incredibili, non mollando mai, in Brasile siamo stati impeccabili. Gli errori commessi nelle sei stagioni precedenti sono serviti a non sbagliare nulla a Rio. La crescita del quartetto, in generale come gruppo e non come quattro corridori specifici, mi ha regalato grosse emozioni. E poi l’evoluzione di Ganna è un’emozione dietro l’altra. Senza nulla to­gliere agli altri ragazzi, è davvero uno spettacolo vedere il cronometro e re­stare sempre stupiti perché Pippo riesce a scendere di 2-3” rispetto alle aspettative. Ero in macchina dietro di lui al Mondiale di Imola 2020, quel giorno mi sono commosso».
L’aspetto più difficile di questo lavoro, im­maginiamo, sia dover lasciare a casa alcuni atleti dopo anni di lavoro insieme in vista di Mondiali e Olimpiadi.
«Crescere sette ragazzi e poi doverne selezionare quattro, è come decidere chi non prenderà una medaglia. Va detto però che da quando sono iniziate le difficoltà, sono iniziate anche le gio­ie. A volte mi sono assunto dei grossi rischi: avendo un quartetto fortissimo, per far prendere la medaglia al quinto uomo, ho cambiato un elemento tra la qualifica e la finale. Sono felice di es­sermi preso questa responsabilità perché, essendomi andata bene, ho potuto dare una soddisfazione a un ragazzo in più. Queste scelte mi hanno reso forte caratterialmente e apprezzato, se funzionano i ragazzi acquistano fiducia, al­trimenti... hai un bel problema. Que­st’anno me la sono sfangata, ma il prossimo mi toccherà assumere scelte im­portanti».  
Chi ha la convocazione sicura è Ganna. Te lo aspettavi così super?
«Lo ricordo nell’inverno 2013 quando svolgemmo i primi test a Montichiari e già era fortissimo. All’inizio però ha fatto fatica, non riusciva a gestire bene lo sforzo. Sei anni dopo, la prestazione ce l’ha in testa senza nemmeno dover guardare il computer, e sai perché? Perché in pista non lo vede, è sotto la sella. Ha una sensibilità pazzesca: gli dico di girare in 15” (sui 250 metri, ndr) e lui fa 14”9 o 15”2. Potrebbe vincere una crono senza strumenti. Ha un motore che può toccare anche i 1.800 watt, ma è molto più importante il dato medio. A 60-70 all’ora fa accelerazioni da 800 watt. Mi ha fatto piacere che do­po le fatiche e le vittorie del Giro mi abbia chiamato per dirmi “ci sono”. Pip­po è uno che non si tira mai indietro, ha la mentalità giusta».
Viviani non è andato come ci si aspettava.
«Uno come Elia per trovare la condizione giusta ha bisogno di avere molti chilometri nelle gambe. Nel 2020 si è corso a singhiozzo e questo non lo ha agevolato. Non deve abbattersi, non de­ve essere troppo critico con sé stesso. È un campione e il palmares parla per lui. Fossi in lui nel 2021 punterei forte sul Giro d'Italia, il Tour finisce troppo vicino ai Giochi Olimpici».
Milan è una bella scoperta.
«Ai Mondiali di Berlino faceva parte del quartetto che è finito terzo ed è stato quarto nell’individuale, che avesse certe qualità nell’inseguimento era noto. Agli Europei si è dovuto inchinare al portoghese Oliveira, che arrivava dalla Vuelta, ma ha 20 anni e tutto il tempo per rifarsi. È stato un Europeo di livello, nonostante le numerose defezioni. I ragazzi ci hanno messo l’anima».
Il gruppo è forte e coeso, qual è il tuo segreto?
«La professionalità è alla base di tutto e i buoni esempi trascinano. Ascolto i ragionamenti di Ganna e mi sembra di sentire Viviani, guardando Jhonny (Mi­lan, ndr) intravedo il Pippo della prima ora. Io ho cercato di dare sicurezza ai ragazzi, li ho convinti che strada e pista possono andare d’accordo senza problemi, anzi. Aver raggiunto certi tempi ci ha fatto capire di essere forti, continuare a ottenere risultati con atleti differenti ci ha dato morale. Al momento abbiamo 6-8 uomini che si giocano cinque posti per Tokyo. Il quartetto deve correre per provare a vincere l’oro, non possiamo permetterci di sbagliare nessun passaggio. I rivali sono forti ma do­vranno superarsi per battere un’I­ta­lia compatta con Ganna, Viviani, Con­sonni e gli altri azzurri che schiereremo. Sono davvero uniti, lo capisco leggendo i messaggi che si scambiano nella chat in cui mi hanno inserito. Sai come si chiama? “Chi non sopporta Villa”. Non ho indagato sul motivo del nome ma ho visto che il gruppo di chi non mi sopporta è davvero numeroso (ride, ndr)».  
Sarà perché in allenamento riempi i loro muscoli di acido lattico... Ad ogni modo, Tokyo 2020 si è trasformata in Tokyo 2021. Che aspettative abbiamo?
«Il tempo di 3’46” al mondiale di mar­zo ci ha fatto capire che possiamo puntare all’oro con il quartetto. Abbiamo perso con la Danimarca per una questione di centesimi però la crescita di Milan ci dà morale e altri elementi si presenteranno in Giappone con una condizione migliore rispetto a quella dimostrata quest’anno. All'ultima rassegna iridata Consonni è arrivato con soli tre giorni di allenamento su pista arrivando dalla Vuelta Algarve, con 7-8 giorni in più di allenamento specifico abbiamo margine. Pensando alla Ma­di­son e all’Omnium è decisamente me­glio correrle l’anno prossimo, quest’anno siamo arrivati “corti” e con troppe poche gare di quel tipo nelle gambe. Consonni e Viviani l’hanno capito e spero che nel programma che stileranno con la loro squadra riusciranno a trovare spazio per qualche gara in più nei velodromi».
Cosa si augura per il futuro il “diesse dell'anno”?
«Che questo virus rallenti la presa perché sta condizionando la vita, soprattutto dei più piccoli. Da tecnico nazionale io mi guardo sempre indietro. I ragazzi li tiro su dal basso, dal professionismo in pista non mi è mai arrivato nessuno. Vedere l’attività giovanile fer­ma mi ha rattristato molto. Allo stesso modo la grinta degli junior che non riuscivano a correre, ma prendevano una convocazione a Montichiari come se fosse una vittoria, mi ha dato morale. Ringrazio le società per la loro collaborazione, nella doppia attività io ci ho sempre creduto e finalmente sono in buona compagnia. Fino a qualche tem­po fa il mio sogno era avere una squadra vincente su strada, oggi sono orgoglioso di questo gruppo giovane che è cresciuto con me e primeggia sia con la maglia di club che con quella azzurra. Sarebbe bello avere una squadra italiana che valorizzi i giovani e li faccia crescere con l’obiettivo dei Giochi Olim­pi­ci mentre li preparara anche per la strada. Sarebbe proprio un bel progetto, ma realizzarlo di questi tempi capisco che è difficile».

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